Categoria : Cultura Real Life Riscopriamoli...
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“Nessuno può chiudere Heidi in una stanza” suona un po’ come “Nessuno può mettere Baby in un angolo”, ma sintetizza la morale di una storia – arcinota – che vede lei, la piccola svizzera “selvaggia”, determinata a perorare la sua causa contro tutto il mondo civilizzato a cavallo tra due secoli ormai andati. Per più di cento anni Heidi è rimasta coerente, ma è oggi, ai tempi della Dad che “imprigiona” tanti coetanei di città, che la sua vittoria di oltre un secolo fa suona davvero come un trionfo.
Si chiamava Hedwig Eva Kiesler, quando nacque il 9 novembre 1914 a Döbling, diciannovesimo distretto di Vienna, elegante sobborgo circondato dalla grande foresta viennese che abbraccia ancora oggi la parte nord della città. Si potrebbe credere che la vita agiata di questa ragazzina sia destinata ad essere come tante altre, se non fosse che proprio quell’anno scoppia la prima guerra mondiale.
“Da quel giorno lo chiamarono Jeeg Robot d’acciaio..” Queste potrebbero essere le parole che concludono una storia, una di quelle che fa venire in mente missioni pericolose, salvataggi all’ultimo millesimo di secondo tra le strade e i palazzi di una città piena di villain dal cuore cattivo e dal passato tormentato. “C’era una volta un uomo nato due volte”, invece, potrebbe costituire l’incipit della stessa storia. In ogni caso, gli ingredienti ci sono tutti; nascita, rinascita, ostacoli da superare, manca solo la classica maschera che copre il volto del supereroe di turno…
Sergio ed Ennio sono due amici che si sono dati appuntamento in una piazza deserta. Si incontrano per la prima volta dopo anni, ma non possono bere un caffè, perché i bar sono chiusi. Non possono bere un bicchiere di vino – uno de li Castelli, senza dubbio – perché le osterie hanno abbassato le serrande da un pezzo. Non possono far altro, se non incamminarsi – ciascuno per proprio conto – in quella piazza deserta che appare ancora più immensa.
Churchill lo sapeva benissimo e – lo proclamava – altrettanto bene: senza vittoria non c’è sopravvivenza. Parole chiare – le sue – parole che dovrebbero essere comprensibili anche a moltissimi di noi, venuti al mondo dopo quel maggio del 1940, l’anno più difficile per la storia della Gran Bretagna. Era una Primavera di 80 anni fa e dell’isola che aveva dominato sull’ impero più vasto mai visto, tutto ad un tratto era rimasta l’ombra di un paese lasciato solo.
Wonder Woman ci è descritta come una principessa amazzone, la guerriera figlia di Zeus e Ippolita. Secondo fonti autorevoli avrebbe 5000 anni, ma la sua tenacia non si è persa nei secoli, così come il suo desiderio di combattere Ares – che poi dovrebbe essere suo fratello – responsabile delle guerre e di tutti i mali del mondo.
E’ estate piena quando nel muro che divide Usa e Messico compaiono tre altalene. Sono rosa, rosa come le penne di un fenicottero vero, come uno di quei fenicotteri salvagente che popolano le acque del Mediterraneo nella stagione più calda. Le hanno concepite e realizzate l’architetto Ronald Rael e la designer Virginia San Fratello, entrambi californiani, entrambi nati nella parte fortunata di un mondo diviso a metà.
“Please, sir, I want some more” Ogni tanto ritrovo sulla mia strada Oliver Twist, e queste sono le sue parole. Quando le pronuncio, nella mia classe, solitamente mi prendo il tempo per una pausa. Non lunga, ma sufficiente per lasciare ai miei studenti il tempo di cogliere il mondo che Charles Dickens tentava di rappresentare grazie a quella singola frase. “Ne voglio un po’ di più”, dice il bambino Oliver, rivolgendosi al sagrestano e riferendosi alla zuppa fumante, ancora abbondante, presente nel pentolone.
C’è un vago profumo di primavera nell’aria quando Alessandra corre in ospedale da una coppia di amici per festeggiare un lieto evento. E’ un giorno di marzo del 2017 ed effettivamente sembra proprio un giorno ideale per celebrare la nascita di un bimbo. Pronta a condividere la gioia dei propri amici diventati genitori da pochi istanti, Alessandra ignora che quella giornata sarà unica e diversa da tantissime altre.
Saroo è nato nel 1981, proprio come me. Avevamo cinque anni, nel 1986. In quel periodo la mia vita era già scandita dalle stagioni e dalle ore destinate ad attività ben precise. C’era il tempo per frequentare la scuola materna, c’erano le stagioni nelle quali era meglio giocare dentro casa e arrivavano poi i momenti spensierati da passare all’esterno. Saroo ne era all’oscuro, nella sua città nel cuore dell’India, continuando a trascorrere intere giornate all’aperto, fuori dalla porta di casa che si affaccia su un paese grande come un continente. Dove – inevitabilmente – s’intrecciano milioni di strade polverose e si incrociano un miliardo di destini.
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