L’ora più buia
Churchill lo sapeva benissimo e – lo proclamava – altrettanto bene: senza vittoria non c’è sopravvivenza. Parole chiare – le sue – parole che dovrebbero essere comprensibili anche a moltissimi di noi, venuti al mondo dopo quel maggio del 1940, l’anno più difficile per la storia della Gran Bretagna. Era una Primavera di 80 anni fa e dell’isola che aveva dominato sull’ impero più vasto mai visto, tutto ad un tratto era rimasta l’ombra di un paese lasciato solo.
Già, un paese lasciato solo, l’unico – con Russia e Stati Uniti ancora estranei al conflitto – rimasto a fronteggiare Hitler e l’orda nazista nei primissimi anni della seconda guerra mondiale.
L’ora più buia degli inglesi e del mondo libero – da qui il titolo omonimo del film con Gary Oldman – forse coincide ancora oggi con il ritiro da Dunkerque, con le bombe che cadono al posto della pioggia e inaridiscono un suolo nobile e fertile.
Eppure, quelle parole sono sopravvissute a quei tempi, alle schiere di ammiratori e oppositori, sono andate ben oltre il loro scopo iniziale: oggi appartengono all’umanità.
Per comprenderne il valore, è sufficiente una semplice considerazione: sono parole che tornano alla mente solo in casi eccezionali, durante eventi che mettono a dura prova il grado di civiltà sin qui raggiunto.
E’ l’ora più buia del mio paese da quando sono nato, e non pensavo che avrei riletto, citato, attribuito i discorsi di Churchill alla diffusione di un virus che fino a quindici giorni fa sembrava remoto e lontanissimo, la solita questione triste destinata ad altri sfortunati. Il benessere insegna tante cose, ma soprattutto ti abitua a credere che tutto sia risolvibile, tutto sia concordabile e rimediabile, che ogni vizio – oltre ogni ragionevole dubbio o bisogno – possa essere soddisfatto.
I bisogni sono roba d’altri – pensavi, pensavo – le paure possono essere scacciate via con innumerevoli distrazioni: esiste il rito dell’aperitivo, la vacanza per andare in Paradiso, la cena rimediata con un paio di amici all’ultimo momento per scacciare via lo stress quotidiano a colpi di battute, brindando al domani che è un altro giorno.
Da ieri il nostro mondo si è trasformato in qualcosa che difficilmente è spiegabile a noi stessi, e che sarà altrettanto complesso testimoniare negli anni a venire a chi non ne avrà conoscenza o memoria:
da ieri il nostro mondo si fonda su regole tutte nuove, imposte a chi, membri di generazioni viziate e cullate, si erano allontanati irrimediabilmente da comandamenti e gerarchie.
Per la prima volta, abbiamo tastato il vero gusto della proibizione, solo una delle figlie della parola quarantena, piombata improvvisamente e amaramente nelle nostre vite: una parola che sembrava appartenere al mondo di Boccaccio, di Manzoni, di navi di pirati. Chi di noi – fino a un paio di settimane fa – avrebbe mai pensato di dedicare interi post o discorsi su un termine assimilabile e riproducibile solo durante le lezioni di letteratura tra i banchi di scuola?.
Ma viene da chiedersi: chi di noi, fino a ieri, avrebbe dovuto temerla, rispettarla, al punto da tenerla a mente prima di uscire di casa o andare a comprare un pezzo di pane?
Già, il pane. Corre alla mente un’altra citazione: se non hanno più pane, dategli le brioche…Già, ricorrere all’infelice battuta, erroneamente e ingiustamente attribuita a Maria Antonietta, servirebbe a sdrammatizzare l’impensabile.
S’intende, fino a ieri.
Se da un lato le locuste invadono il corno d’Africa – e anche quello, in fondo, continua a riguardare gli altri – migliaia di connazionali hanno invaso i centri commerciali per la paura di non trovarlo, il pane. Senza una ragione, contravvenendo alla logica che il nemico da combattere è un’epidemia, e non una carestia, gli Italiani per l’ennesima volta si sono dimenticati che esistono regole e che tra tutte, in primis, è fondamentale evitare assembramenti.
Assembramento: altra parola che avrò usato una o due volte in tutta la mia vita. Eppure, è la parola che più pesa, che più sembra difficile da masticare e digerire tra tutte quelle che il premier Giuseppe Conte ha citato nel discorso alla nostra nazione nella sua – forse ha ragione – ora più buia.
Il nostro Primo Ministro Giuseppe Conte ha parlato di quest’ora buia in un Post su Instagram, ricordando e parafrasando proprio i discorsi di sir Winston Churchill. Il quale, e sarei pronto a giurarlo, oggi ricorrerebbe ai social pur di dare sfogo alla sua gloriosa testardaggine, al suo indomito desiderio di guardare il nemico e sfidarlo negli occhi, urlandogli contro non il suo disprezzo, bensì la propria convinzione che la vittoria totale è possibile solo se esiste, davvero, la voglia di sopravvivere.
Anche nell’ora più buia, la voglia di sopravvivere – e dare il meglio – vince e paga sempre: se da un lato ci ha aiutati a ritrovare il senso di parole che sembravano perdute, oggi può lasciarci riscoprire il gusto dolce di azioni che sembravano destinate all’estinzione.
Come ignorare l’orologio, evitare di correre e rincorrere chissà chi e chissà cosa, parlare con la propria famiglia, dialogare e tentare di conoscere i propri figli, scoprire angoli dove giocare conta più dell’assenza di wi-fi, aiutare e fare tutto il possibile per tutelare l’incolumità, la vita stessa di chi ci ha dato la vita.
Più banalmente – e forse è vero il contrario – l’ora più buia potrà aiutare noi adulti a riscoprire e far capire ai più piccoli che sono sempre esistiti week end senza centri commerciali, serate con serrande abbassate e negozi chiusi prima del tramonto. Se queste possibilità verranno interpretate come sinonimo di rinuncia, allora il virus non sarà l’unica e ultima minaccia. E questa, ne sono certo, non resterà la nostra ora più buia.
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