Tra il buio e l’altalena rosa

E’ estate piena quando nel muro che divide Usa e Messico compaiono tre altalene. Sono rosa, rosa come le penne di un fenicottero vero, come uno di quei fenicotteri salvagente che popolano le acque del Mediterraneo nella stagione più calda. Le hanno concepite e realizzate l’architetto Ronald Rael e la designer Virginia San Fratello, entrambi californiani, entrambi nati nella parte fortunata di un mondo diviso a metà.

Quelle altalene richiamano bambini di lingue diverse e vestiti con abiti diversi: nessuno sa resistere loro, e la stessa scena si ripete inspiegabilmente in tutti i parchi gioco del mondo. L’indomani quelle altalene non ci saranno più, ma per ora non conta: il saliscendi permette a bambini di due paesi – e ahimè, di due mondi diversi – di guardarsi negli occhi.

Il muro che li divide è solo uno dei tanti ed è solo una parte di quella barriera che ha inizio in California. Tutto ebbe inizio a San Diego, divisa dalla città messicana di Tijuana,  nei primi anni novanta: oggi la barriera arriva anche in mezzo all’oceano.

E’ invece inverno pieno, tanto che il calendario segna il 9 gennaio 2020, quando una corte d’appello federale, ribaltando una sentenza emessa da un giudice texano, dà il via libera allo sblocco di quattro miliardi di dollari che serviranno per completare una sezione importante del muro  che i messicani non esitano a definire “muro della vergogna”

“Desperately needed” è quello che aggiunge il 45. presidente americano, che canta vittoria su Twitter malgrado il caso non sia ancora chiuso. Twittando, anzi no cinguettando, Trump  ci ricorda che lui non si è mai arreso: l’anno scorso era pronto a invocare l’emergenza nazionale pur di realizzare una barriera invalicabile che corra senza interruzioni dalla California al Texas.

Il cuore di Donald Trump corre oggi soprattutto lì,  lungo un muro  di 3,169 chilometri. E’ il muro dei suoi sogni, il dream wall sui cui i suoi seguaci si sintonizzano mentre milioni di altri individui restano aggrappati agli antichi fasti e ai miserabili resti dell’American dream.

I want you è tutto ciò che sintetizza ciò che più sta a cuore al Presidente in odore di elezioni e scadenza di mandato: mai come prima volto e messaggio appaiono nudi e crudi, diventando perfettamente sovrapponibili agli stessi inequivocabili reclami dello zio Sam che invitava i giovani americani ad arruolarsi.

Zio Donald ha fretta di chiudere il confine, perché i giorni passano e le elezioni si avvicinano: a sud coltiva il sogno della sua muraglia, infinita ottava meraviglia del mondo che vede nella sua testa.

Il progetto del tycoon è infatti più ambizioso di quello che sembra: a lui, che forse può effettivamente tutto, non può bastare l’idea di dividere un paese dall’altro, o una famiglia dall’altra, Nient’affatto: l’uomo più potente del mondo ha il compito di tracciare la linea tra Paradiso e Inferno, perché magari i buoni sono davvero tutti da una parte e i cattivi tutti dall’altra…

Quando finisce il buio, perché prima o poi inevitabilmente spunta il sole, zio Donald e tutti gli altri scoprono che durante la notte, narcos e trafficanti sono riusciti a tagliare con una sega elettrica uno dei pali di cemento a cui sono agganciati i pannelli di acciaio che il Presidente ha dovuto accettare perché gli agenti potessero guardare al di là del confine.

Il muro dei suoi sogni, quello costruito solo ed esclusivamente in sano, incorruttibile cemento, non esiste e non esisterà mai. Ma quegli stessi piloni segati e magari abbattuti riescono a trasformarsi in tentacoli che possono arrivare ovunque.

Anche dove piove spesso, in un luogo dove le strade non sono desertiche e polverose come quelle che a sud per lunghi tratti separano gli USA dal Messico. Molto più a nord c’è il Canada, paese paesaggisticamente stupendo e lussureggiante, dove le strade costeggiano infiniti chilometri di boschi verdi dove gli animali selvatici scorrazzano felici e spensierati.

Effettivamente, lassù le strade sono più pulite e nelle spiagge non sembrano esserci barriere, le case sono belle, magari anche di più di quelle che si possono trovare in territorio statunitense.

Ma anche lì, a Nord, il paradiso non esiste e  l’estate, certamente, non dura per sempre. E’ già arrivato l’autunno, quando la famiglia Connors, originaria del Kent, Inghilterra, è in vacanza dalle parti di Vancouver.

David Connors, sua moglie Eileen, il loro bambino di tre mesi sono in vacanza con altri famigliari nella British Columbia. Sette turisti inglesi in viaggio, armati di regolare passaporto, certi di godersi un paio di settimane di relax lontano da casa.

Sono circa le 9 di sera del 3 ottobre e tutta la famiglia è a bordo di un’auto, in procinto di tornare al proprio hotel. Alla guida c’è Michael, cugino di David, che intento a schivare un animale sulla carreggiata finisce su una strada che non riporta alcuna segnaletica.

Non sono passati dieci minuti, e tutta la famiglia è già circondata da una squadra di Border Patrol agents, agenti statunitensi che pattugliano il confine. Già, i Connors sono finiti in territorio americano, dato che la loro auto sta percorrendo le strade di Lynden, nello stato di Washington.

La legge  negli Usa è ferma su questo punto: chiunque entri in territorio statunitense senza attraversare i valichi di frontiera o punti di confine ufficiali, o senza sottoporsi a regolare ispezione, rischia di essere fermato e trasferito in un centro per ulteriori accertamenti.

Malgrado chiedano insistentemente di essere riportati in Canada, Michael e David Connors vengono arrestati, mentre le mogli e i figli vengono immediatamente presi in custodia dalla polizia di frontiera per la notte e l’indomani vengono scortati all’aeroporto di Seattle.

Qui c’è un volo che li aspetta, ma contrariamente alle loro aspettative, non è diretto a Londra, bensì dall’altra parte del paese. Quando i Connors atterrano a Philadelphia vengono trasferiti nel centro di detenzione di Berks, uno dei più grandi centri destinato a tutte le famiglie che tentano di immigrare clandestinamente negli Stati Uniti.

Nei giorni a seguire, i Connors lamentano un trattamento simile a quello riservato a dei criminali, costretti a patire il freddo, a riscaldarsi con coperte e lenzuola sporche e maleodoranti, a passare la notte in celle condivise senza avere notizie per ore. Nelle settimane seguenti, un’inchiesta dell’autorevole Washington Post cita un video che secondo le autorità americane mostrerebbe la famiglia Connors intenta a varcare “lentamente e deliberatamente” uno dei tanti fossati che dividono naturalmente il Canada e gli Stati Uniti, senza compiere alcuna deviazione come invece dichiarato dai diretti interessati.

Voci discordanti, che tuttavia rischiano di perdersi come accade all’eco tra i boschi, che certamente non mancano lungo un confine di quasi novemila chilometri – il triplo rispetto alla frontiera con il Messico.

Se a sud si stagliano piloni di cemento, a nord la divisione è rimarcata con dei vasi: già, accade in un villaggio del Vermont, stato del Nord est USA, dove la biblioteca e l’opera house ricadono per metà anche in territorio canadese. A segnare quel confine oggi ci sono delle fioriere, sebbene ai cittadini canadesi sia ancora concesso di varcare l’ingresso della biblioteca che cade sotto la giurisdizione degli Stati Uniti.

Dopo la vicenda dei connazionali, un’inchiesta del giornale britannico The Sun mostra decine di casi simili dove chiunque rischia di imbattersi in barriere invisibili, di varcare il confine tra Canada e Stati Uniti senza saperlo, come dimostrerebbero case in passato costruite in entrambi i paesi. Situazioni paradossali di cui un tempo non si preoccupava nessuno, ma che dopo l’11 settembre 2001 sono diventati casi burocratici se non addirittura diplomatici.

Nel maggio 2018 Cedella Roman, diciannovenne francese, viene arrestata perché  oltrepassa il confine a sud di White Rock, mentre fa jogging. Ignara di aver commesso un reato, la ragazza viene chiusa in un van e trasportata immediatamente in un centro di detenzione a 120 km di distanza.

Qualunque sia la verità, resta indubbio come storie simili, che possono accendere mille dibattiti, infinite diatribe e dare il via a contenziosi tra paesi, accadano lungo il confine  più lungo del mondo che corre tra due paesi enormi. Per questo negli anni rischia di trasformarsi in un set sconfinato di vicende assurde, paradossali e nel peggiore dei casi, inumane.

Al di là di tutto, a Sud come a Nord, resta la certezza che i confini sono voluti dagli uomini. O magari solo da alcuni. Ce lo ricorda il cielo sopra di noi, penso.

Ma ce lo possiamo ripetere anche grazie a virgole rosa che spuntano e abbattono temporaneamente un muro di cemento, in un giorno di luglio che, in fin dei conti, è uno come tanti altri. Dove bambini di oggi ridono e si divertono come quelli di tanti anni fa. All’aria aperta, seduti su semplici altalene, eppure convinti di volare.
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