C’era una volta Roma
Sergio ed Ennio sono due amici che si sono dati appuntamento in una piazza deserta. Si incontrano per la prima volta dopo anni, ma non possono bere un caffè, perché i bar sono chiusi. Non possono bere un bicchiere di vino – uno de li Castelli, senza dubbio – perché le osterie hanno abbassato le serrande da un pezzo. Non possono far altro, se non incamminarsi – ciascuno per proprio conto – in quella piazza deserta che appare ancora più immensa.
Thank you, Florence
Boris Johnson alla fine ha scrollato la sua chioma bionda e cambiato idea. Niente immunità di gregge, immediato lockdown con chiusura di attività non necessarie. Un concetto che comprendiamo, divenuto così cinicamente famigliare per noi italici – già, gli stessi accusati di voler fare la siesta – precursori nella lotta al Covid 19. Il coronavirus è arrivato, oltremanica. Sbarcato chissà dove, ma poco importa, visto che i numeri ci dicono che scalpita anche lì, pronto a sgranchirsi e distendersi dalle spiagge di Brighton e Dover fino alle cime dei monti scozzesi.
L’ora più buia
Churchill lo sapeva benissimo e – lo proclamava – altrettanto bene: senza vittoria non c’è sopravvivenza. Parole chiare – le sue – parole che dovrebbero essere comprensibili anche a moltissimi di noi, venuti al mondo dopo quel maggio del 1940, l’anno più difficile per la storia della Gran Bretagna. Era una Primavera di 80 anni fa e dell’isola che aveva dominato sull’ impero più vasto mai visto, tutto ad un tratto era rimasta l’ombra di un paese lasciato solo.
Norma e Mafalda
Cuori senza frontiere è un film girato in un angolo d’Italia. E’ il 1949 ed è la stagione del neorealismo. C’è stata la guerra e la pace è fragile. A dimostrarlo ci sono fantasmi, ma anche i vincitori e gli sconfitti. Volti di uomini e donne che, in un paesino del Carso – dove il film
Tutta la vita in un barattolo
Wonder Woman ci è descritta come una principessa amazzone, la guerriera figlia di Zeus e Ippolita. Secondo fonti autorevoli avrebbe 5000 anni, ma la sua tenacia non si è persa nei secoli, così come il suo desiderio di combattere Ares – che poi dovrebbe essere suo fratello – responsabile delle guerre e di tutti i mali del mondo.
Tra il buio e l’altalena rosa
E’ estate piena quando nel muro che divide Usa e Messico compaiono tre altalene. Sono rosa, rosa come le penne di un fenicottero vero, come uno di quei fenicotteri salvagente che popolano le acque del Mediterraneo nella stagione più calda. Le hanno concepite e realizzate l’architetto Ronald Rael e la designer Virginia San Fratello, entrambi californiani, entrambi nati nella parte fortunata di un mondo diviso a metà.
Lasciati al buio
“Please, sir, I want some more” Ogni tanto ritrovo sulla mia strada Oliver Twist, e queste sono le sue parole. Quando le pronuncio, nella mia classe, solitamente mi prendo il tempo per una pausa. Non lunga, ma sufficiente per lasciare ai miei studenti il tempo di cogliere il mondo che Charles Dickens tentava di rappresentare grazie a quella singola frase. “Ne voglio un po’ di più”, dice il bambino Oliver, rivolgendosi al sagrestano e riferendosi alla zuppa fumante, ancora abbondante, presente nel pentolone.
La scelta di Sophie. E di Jack.
Ho scelto di partire e vedere com’è Friedriktown, Ohio. La sensazione è che, da vicino o da lontano, quella cittadina del MidWest sia identica a tanti villaggi della provincia americana, tanto che il nome sembra il dettaglio più trascurabile. Del resto, dall’altra parte dell’Oceano l’omonimia è comune a tante città e cittadine. In una terra come quella non possono essere i nomi e i monumenti a fare la differenza: questo compito spetta alle strade e a chi le percorre.
La verità che non ti ho detto
Gabriele Micalizzi è un fotoreporter di trentaquattro anni, ma il suo racconto dall’ospedale San Raffaele di Milano è soprattutto la testimonianza di un sopravvissuto. Lo dimostra l’unicità che contraddistingue la sua vicenda alla pari di tutte le storie che riguardano da vicino coloro che – magari per miracoli o ragioni spesso inafferrabili – sopravvivono a morte certa.
Nata due volte
Quando appare sullo schermo, Anka Bergman è una signora che ha più novant’anni ed è chiamata a dare la sua ultima testimonianza. Il suo racconto si alterna a quello della figlia Eva, venuta al mondo quando il mondo, nel 1945, non la voleva affatto. Perché nel 1945, al nono mese di gravidanza, Anka è sull’ennesimo vagone che la sta portando al campo di concentramento di Mauthausen. Sul fotofinish di una guerra che sembra interminabile, mette alla luce la sua bambina. Pur sentendosi sola al mondo, pur essendo ignara del suo destino.