Lasciati al buio

“Please, sir, I want some more” Ogni tanto ritrovo sulla mia strada Oliver Twist, e queste sono le sue parole. Quando le pronuncio, nella mia classe, solitamente mi prendo il tempo per una pausa. Non lunga, ma sufficiente per lasciare ai miei studenti il tempo di cogliere il mondo che Charles Dickens tentava di rappresentare grazie a quella singola frase. “Ne voglio un po’ di più”, dice il bambino Oliver, rivolgendosi al sagrestano e riferendosi alla zuppa fumante, ancora abbondante, presente nel pentolone.

Quel pentolone i bambini come Oliver, molto spesso orfani poverissimi accolti nella Workhouse della parrocchia che li ha “presi in carico”, lo divorano con gli occhi. Sanno che il bis non è consentito, anzi non è nemmeno contemplato dal duro regolamento che vige nelle famigerate case lavoro, quelle che in epoca vittoriana accoglievano infermi, indigenti, bimbi abbandonati chiamati a “contraccambiare” l’ospitalità svolgendo mansioni spesso umilianti.

Del resto i poveri, a quel tempo, non hanno scelta: quella è l’unica forma di assistenza possibile nell’Inghilterra del diciannovesimo secolo, paese che domina il mondo intero e dove i ricchi pur crogiolandosi all’idea di aiutare i meno fortunati, tentano in tutti i modi di renderli invisibili.

Oliver è murato tra quelle mura e quelle mura permettono ogni sorta di maltrattamento nei confronti dei bambini. Viene picchiato con il mestolo, la sua richiesta scandalizza i grandi, fa subito il giro dei corridoi tanto da giungere in un baleno alle orecchie dei membri del consiglio di amministrazione, seduti attorno ad un tavolo per una lauta cena:

‘Quel bambino sarà impiccato’ – “disse il signore con il gilet bianco. Nessuno osò contraddire la profetica opinione”…

La mia lettura di quelle pagine di Dickens solitamente si ferma qui, per riprendere successivamente: nell’ora che segue, nella lezione che verrà. D’altronde il climax è stato raggiunto e quella profezia intrisa di assurdità pennellata a dovere da un romanziere geniale spezza ogni eccesso di drammaticità.

In un baleno, tento di catturare gli occhi e lo sguardo di ragazzi con il cappellino e l’orecchino, di ragazze che indossano rigorosamente un outfit diverso dal giorno prima e dal giorno che verrà. In altre parole, osservo le reazioni di chi ho di fronte, giovani uomini e giovani donne che hanno appena messo il naso nell’età adulta.

A quello sguardo rubato segue un silenzio voluto – il mio – complice del loro. Quando suona la campana è già arrivato il momento dello smartphone, quasi a voler convalidare il solito sospetto: la certezza che per loro quello resta un mondo finito per sempre.

I miei alunni, seduti al caldo e al sicuro, ritengono quel mondo un pianeta lontano. Magari si meravigliano all’idea che sia mai esistito, ma per la maggior parte di loro quella riflessione è questione di un attimo rubato alla connessione wi-fi che per un momento è venuta meno.

Anche io ho commesso quest’errore, anni fa. Poi ho iniziato a percepire la precarietà sulla mia pelle, e in seguito, a vederla toccare con mano fredda le persone che avevo accanto, i miei vicini, i miei amici, semplici conoscenti.

Si tratta di una lezione che ha un sapore unico, come tutte le altre: nel momento in cui verrà riaperto il libro, le parole lette e tradotte saranno accompagnate da altre.

Oggi i nemici sono sempre più forti. Non basterebbe un Dickens, per denunciare ciò che non va nel mondo dell’infanzia. Servono più voci per farsi ascoltare, ed ecco che pian piano si tende l’orecchio ad organizzazioni importanti e riconosciute come Save the Children.

Dal loro ultimo rapporto è emerso che nel 2018, nel nostro paese, il 12,5 % dei minori vivono in povertà assoluta.

Nel 2008 erano il 3,5%, mentre oggi i minori che vivono in condizioni di povertà assoluta sono 1,2 milioni. Potrebbe bastare questo, ma chi scrive – come chi legge – sa che nel ventunesimo secolo pane e minestra non bastano, e saziarsi non è più sufficiente.

La povertà economica nel mondo contemporaneo si alimenta da sola e si trasforma in qualcosa di diverso. Povertà economica oggi diventa povertà educativa. Colpisce cuore e cervello, divora presente e futuro perché chi ne soffre, non frequenta le scuole ‘giuste’ e non vive in strade sicure.

Progressivamente, è costretto a marginalizzare la sua esistenza, ad arginare aspettative e interessi: secondo l’inchiesta, in Italia oggi un ragazzino su cinque non fa sport mentre la metà tra bambini e teenager non legge libri al di fuori dell’orario scolastico.

Ecco che, alla fine, non resta altra scelta se non quella dell’abbandono: la scuola ha i suoi costi, anche se l’istruzione – ripetono – è pubblica. Vivo in Abruzzo, una regione che insieme alla Toscana e al Friuli Venezia Giulia è riuscita ad abbattere il tasso di dispersione scolastica. Ma rotolando verso sud, verso la Campania, la Sardegna o la Sicilia, si alza il velo sul mondo degli early leavers, ragazzi e ragazze costretti a interrompere il loro percorsi di studi prima del tempo e poi lasciati soli, senza alternative. Senza un’occupazione, un interesse, lasciati soli e al buio, senza una luce che accenda il loro futuro.

Ai  banchi vuoti si affianca l’immagine di tavole spoglie: cinquecentomila ragazzini non assumono proteine, a discapito del loro fabbisogno calorico. Sulle tavole spoglie si poggiano così pacchi alimentari, destinati a 453.000 minori di età inferiore ai 15 anni. Tanti, troppi, eppure non si vedono. Vale oggi, e valeva ieri: gli ultimi ‘devono restare’ ultimi.

Di fronte a ciò che non si vuole vedere, la società si è spesso difesa come poteva, spesso distraendosi. Negli anni bui della grande Depressione, l’America affamata alimentava il mito di Shirley Temple. Tanto che lo stesso presidente Roosvelt si inginocchiava pubblicamente ai piedi di una bambina di sei anni, divenuta idolo e antidoto al tempo stesso, perché in fondo “con 15 centesimi ciascun americano può andare al cinema e dimenticare i suoi problemi”

Oggi il cinema non basterebbe. Ecco perché dopo la pubblicazione del X atlante sul mondo dell’Infanzia, Save the children ha usato la rete per rilanciare la campagna “Illuminiamo il futuro”. Sul sito internet di save the children  si può sottoscrivere la petizione che permette di raccogliere firme in favore del recupero di tanti spazi abbandonati, da destinare ad attività extra scolastiche gratuite e sicure per il maggior numero di bambini possibile. Ben sedici spazi pubblici in tutta Italia sono diventati così il simbolo del paese che sta negando un futuro a troppi. Per ricordarlo si ricorre ad un hashtag creato per l’occasione.

#italiavietataiminori parte da una provocazione che non ha nulla di polemico: è un remind netto, che non lascia spazio ad alibi perché capace di sintetizzare, in un paese dove si legge sempre meno, uno scenario segnato da mille problemi.

Il futuro resta una responsabilità, oggi come ieri: è stato lo stesso per quel passato che oggi sembra essere esistito soltanto nei libri o nei film a bianco e nero come quelli di Chaplin e del suo ‘monello’ Jackie Coogan.

Nelle pagine di certi libri e tra i frammenti di alcuni film, si coglie invece qualcosa di diverso: il guanto di sfida lanciato alla vita vera, e alle schiere di indifferenti.

Certe sfide hanno già il sapore della vittoria. Proprio per questo, le pagine di un libro scritto due secoli fa e magari ingiallite, servono più che mai.  Ci ricordano che c’è sempre il tempo per sentirsi sazi e che si tratta comunque di una sensazione effimera. Breve come quella che deve aver provato Oliver Twist, prima che la fame e la voglia di riscatto tornassero a farsi sentire.
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