L’alba del giorno dopo. P come Perdono

Eva Kor ha più di ottant’anni e ama presentarsi dicendo che è una sopravvissuta. Lo fa anche dopo aver fissato per un attimo il pavimento del palcoscenico dell’auditorium della scuola americana dove è ospite, prima di invitare gli astanti a sedersi per condividere il palco con lei.  Accadeva nei teatri ai tempi di Shakespeare, quando pubblico e attori non erano divisi da barriere e dal sipario nel momento in cui commedie e tragedie  prendevano vita.

Nonostante ciò, la vita di Eva ha tutti gli ingredienti della tragedia che non lascia scampo, in primis perché all’età di dieci anni il suo treno si ferma nel posto peggiore al mondo.

Una striscia di terra che non ha uguali sulla terra. Lo dice e lo ripete una donna finita bambina sui binari che conducevano alla stazione di Oświęcim  ma questo non basta a rendere l’idea perché lei in quell’istante è come tutti gli altri.

Fa parte dell’ingranaggio che gli ufficiali nazisti hanno ribattezzato già Endlösung: la soluzione finale che la famiglia di Eva Mozes Kor sta vivendo sulla propria pelle. Tutto corre veloce nella sua mente – lo ribadirà più volte – nel ricordo come nella narrazione di momenti che in realtà sarebbero inenarrabili, perché Oświęcim è già diventata Auschwitz Birkenau.

In una stazione come quella gli addii sono più rapidi: la bambina di dieci anni saluta frettolosamente suo padre e dice ciao, per sempre, a lui e alle sorelle più grandi. Nel ricordo di quella stazione trova infine spazio quell’ultima immagine della madre che tende le mani verso di lei senza toccarla.

Eva potrebbe finire qui. Spendere poche parole e terminare il suo racconto con quell’immagine e lasciare tutti senza fiato.  Ma qui siamo al cospetto di una donna che ammette di parlare tanto e questo, quando sei davvero una sopravvissuta – è una benedizione.

Per fortuna tira fuori dal cilindro battute su battute, che le concedi perché tu non hai vissuto quello che lei ha vissuto “i veri sopravvissuti siete voi, parlo davvero tanto”

Strappa una risata, anche perché il suo pubblico, nel turbine di quel dramma, finirebbe travolto: Eva Kor vuole impedirlo a tutti i costi, perché è come se il suo dolore e quello di tutti gli altri, potessero riportare in vita chi l’ha provocato.

Eva Kor oggi è donna sopravvissuta a tutto, è madre  di un figlio scampato  al cancro, ma si presenta come sopravvissuta e un attimo dopo si identifica ancora come figlia e come sorella. Forse è un atto inconsapevole, ma è grazie alla sopravvivenza di uno, che si palesa lo sterminio di massa di tanti altri. In primis dei tuoi cari, delle persone che dovrebbero vederti crescere e diventare adulto.

Invece la follia di un pezzo di mondo dove tutto va al contrario, prevede che gli altri ti abbandonino vicino ad un binario.

Eva non resta però sola: lei è anche gemella, e in quel lembo di terra diverso da tutte le altre, sarà chiamata a vivere due destini invece che uno soltanto.

Ad Auschwitz incontra un uomo che indossa un camice bianco. Si chiamava Mengele, lo ribattezzeranno  Angelo della Morte. E’ ossessionato dai gemelli, ben tremila visitati e soltanto pochissimi che potranno raccontare ciò che è stato.

Ma anche senza di lui, la vita in quel posto è ridotta ad gioco di equilibri dove è praticamente impossibile restare in piedi. Non solo perché c’è sempre fango, ma soprattutto c’è un filo sottile che pregiudica la possibilità di fare un passo e prevederne le conseguenze.

Un filo sottile che Eva percorre la prima notte all’arrivo al campo, quando ha bisogno della latrina. Tra ratti e pidocchi sul pavimento sudicio l’accolgono i cadaveri ammassati di persone che non conosce.

In quei pochi metri quadrati, c’è il coperchio aperto dal quale sono usciti fuori tutti i mali dell’umanità. Eva si trova di fronte alla tentazione di fermare il mondo ed impedirgli di girare ancora. è l’ultima e al tempo stesso la prima donna sulla faccia della terra, ma in completa solitudine fa a se stessa la promessa che la cambierà per sempre.

Non vuole finire morta su quel pavimento e da quel giorno, ogni nuova alba, è il cammino verso la sopravvivenza e soprattutto verso la vita che verrà negli anni a venire. E’ una lotta dura, che affronta ogni tipo di nemico: fame, freddo, caldo, pestilenze, malattie, indifferenza.

L’angelo della morte le inietta sostanze tossiche e germi di  ogni tipo cinque volte a settimana. Eva Contrae la febbre alta, Mengele si traveste per l’ennesima volta da giudice e sentenzia ridendo che la fine per lei è ormai vicina.

Nel mondo paradossale di Auschwitz la brava paziente non ascolta le parole del suo medico: sa che non deve credergli, dopo averlo visto legare due bambini per unire i loro organi e trasformarli in gemelli siamesi. Sa che deve ignorare l’uomo dai capelli bruni che, auspicando un mondo di biondi e occhi azzurri, tenta di cambiare il colore degli occhi ai suoi pazienti. Da paziente integerrima, è consapevole che è meglio non dar retta al medico che vuole trapiantare gli organi dalle sue cavie senza motivo e senza alcuna anestesia.

Agli occhi del mondo, Eva si salva il 27 gennaio 1945 quando i sovietici liberano Auschwitz. Viene filmata ed oggi quel video la mostra ancora in prima fila mano nella mano con la gemella.

Ma la liberazione – per tutti i nati dopo  al di là del filo spinato – coincide troppo spesso con la salvezza.

Eva Kor invece conosce troppo bene i suoi incubi, condivide da troppo tempo i suoi ricordi con persone diventate fantasmi di un passato impossibile da cancellare.

Ecco perché cinquant’anni dopo, non lontana da quelle latrine oggi museo,  fa di nuovo una promessa. Non è immersa nel buio e non è sola:  Questa volta parla all’umanità di fronte alle telecamere, al cospetto del dottor Hans Munch, unico medico nazista assolto.

Di fronte ai sopravvissuti, senza più la gemella scomparsa un paio di anni prima, Eva ha bisogno di tutti i principi, i respiri, le belle parole ascoltate e seminate negli anni, per non indietreggiare di fronte alla sua voglia di perdonare i suoi aguzzini.

Le sue sono parole di pace e coraggio, che paradossalmente l’avvicinano ai suoi nemici, ma l’allontanano dai suoi correligionari e dai sopravvissuti.

Jona è un’altra sopravvissuta: oggi lei ed Eva potrebbero tenersi per mano, ma non lo fanno. Eva ha teso le sue verso i suoi aguzzini morti o morenti, ma soprattutto verso la loro diretta discendenza. Questo le ha divise anni fa.

Perché la storia di Eva Kor è la storia del perdono che sciocca più della voglia di vendetta. Jona non vuole perdonare e forse non lo farà mai, Eva lo ha già fatto perché per lei perdonare è un seme di pace, la miglior vendetta contro chi sostiene l’odio.

Non c’è ragione di sostenere una delle due parti, di dividere il mondo in due fazioni perché francamente non ce ne è più bisogno. Non c’è un filo logico che permetta di orientarsi nel labirinto della follia, specie se quel labirinto è buio e non ha vie di uscite.

Del resto il perdono di Eva non significa che la sua è una storia diversa. Non c’è e non potrà mai essere un lieto fine, neanche per lei.

Per una volta l’unica differenza la fanno le parole, più dei fatti. A differenza di vendetta, la parola perdono  forse permette di continuare a raccontare. E finché c’è la voglia di farlo, le parole non si esauriscono e nemmeno la vogliai di cercarle. Di fronte alle porte che non si chiudono mai. Si volta semplicemente pagina,  senza cancellare ciò che è stato scritto e senza chiudere il libro.
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