L’alba del giorno dopo. V per Vendetta

Quando i “Vendicatori” entrano in quella casa distrutta  deve essere buio pesto. All’inizio non desta particolari emozioni. E’ pur sempre una delle tante case violate e abbandonate nel cuore della vecchia Europa ferita a morte dalla seconda guerra mondiale. Da qualche mese, i vendicatori però stanno cercando i criminali nazisti da stanare, loro persecutori in passato, nemici per l’eternità. Intendono sottoporli al solito rito cui ormai i nuovi carnefici si sono abituati: un rapido sequestro, un breve processo, un inevitabile verdetto.

Ma quella notte del 1945 i vendicatori si trovano improvvisamente vis a vis con un muro. Sulla parete campeggia una scritta impressa col sangue.

“Ci hanno sterminati. Ricordatevi di noi e vendicateci”

In quel momento Nakam – che nella loro lingua significa Vendetta – prende rapidamente forma.  D’ora in poi l’alba del giorno dopo assume un preciso significato, definibile in un comandamento tutto nuovo: uccidi coloro che hanno sterminato. Quella scritta non va spiegata o interpretata, bisogna semplicemente darle un seguito perché non c’è finzione, non c’è un intreccio da sciogliere, non c’è una trama innaffiata da effetti speciali

Si tratta di pagine di storia perché sono episodi di vita vera: i vendicatori non sono nemmeno paragonabili agli Avengers targati Marvel, vendicatori affascinanti, indistruttibili, vulnerabili per esigenze sceniche e di copione.

Sono invece giovani sopravvissuti a tutto ciò cui si poteva sopravvivere.  Ma chi sopravvive alle vere tragedie ricorda a tutti gli altri che la sopravvivenza non equivale necessariamente alla salvezza. Quei ragazzi  hanno già un passato inenarrabile, un  presente incomprensibile, un lungo futuro che potrebbe tradirli ancora e in qualsiasi momento.

In alcuni casi sono diventati orfani ed orfane prima del tempo, in molti casi hanno patito fame e freddo fino alla tortura. In un modo o nell’altro, sono tutti accomunati da una profonda diffidenza nel genere umano, che però non ha impedito loro di diventare amici veri, legati da un patto inossidabile.

Nell’odio per gli altri e nell’amore che nutrono per la stessa causa, Bezalel, Menahem, Poldek, Vitka, Rozka e altri hanno ritrovato comunque una ragione di vita. Se davvero non c’è possibilità di scampo ad una vita crudele, allora i carnefici dovranno subire la stessa sorte riservata alle loro vittime.

I vendicatori hanno un capo e si stringono ancor di più intorno a lui in quelle settimane convulse: Abba Kovner non è Tony Stark svestito e/o travestito da Iron Man.

Non è il supereroe che ti aspetti, perché Abba è un giovane ebreo cresciuto sul Baltico e che ha studiato in Accademia, dove negli anni che precedono la seconda guerra mondiale si dedica alle arti e soprattutto scrive poesie. Tutto questo però ai suoi persecutori e nemici non importa.

Nei primi anni di guerra Abba l’ebreo abbandona le parole gentili perché non vuole essere massacrato come tanti suoi correligionari, vale a dire in assoluto silenzio. Si rintana nei boschi della Lituania dove gli eccidi si ripetono senza sosta, per organizzare la Resistenza prima e pianificare la vendetta poi.

La parola ebraica Nakam riassume tutto il senso dei giorni a venire perché non c’è spazio e nemmeno pazienza per una giustizia che non arriva.  Anche per un poeta che si nutre di milioni di parole e versi, Nakam sembra essere l’unico nome possibile da dare al suo gruppo, l’unico che nella sua mente di poeta che fa rima con Berihah, il movimento clandestino nato per condurre gli ebrei in Palestina.

Fino al 1948 gli ebrei sopravvissuti non hanno ancora uno stato, ma molti vogliono entrare illegalmente in Palestina per fondarne uno.

Oggi li chiameremmo immigrati clandestini, ma le parole del poeta Abba Kovner hanno la meglio

“E’ giunto il tempo di togliere i fiori dalla terra dei morti e ripiantarli nella terra dei vivi”.

Più che ermetismo, si tratta di sfacciato e cinico minimalismo: l’Europa per gli ebrei si è trasformata in un grosso cimitero e sotto terra sono finite vittime innocenti. Il gruppo dei vendicatori guarda al futuro, alla costituzione di uno Stato ebraico, ma  la sete di vendetta è troppo forte che solo un’acqua speciale riuscirà a soddisfare.

Non si tratta di una metafora ricercata da quel leader che è anche poeta perché tra il 1945 e il 1946 Kovner e i suoi elaborano due progetti. Ed il primo, noto anche come Piano A, è un progetto spietato.

I vendicatori vogliono avvelenare le risorse idriche delle maggiori città tedesche, perché a morire devono essere i civili tedeschi ritenuti responsabili dello sterminio di massa di sei milioni di ebrei. I membri del gruppo fanno domanda di assunzione presso gli impianti idrici di città come Norimberga e Amburgo e con insperato successo. Nelle settimane che seguono fremono e tacciono, finché uno di loro ottiene l’incarico tanto sperato.

Poldek è un giovane di belle speranze quando viene assunto come manutentore presso il sistema di filtraggio dell’impianto dove lavora. Sa che è solo questione di tempo e di aprire le porte – nonché le valvole giuste – prima di sprigionare la giusta dose di veleno che dia vita alla strage annunciata.

La perseveranza e il coraggio di farlo non mancano. Ma il piano stenta a decollare perché a mancare, neanche a dirlo, è la materia prima. I gruppi sionisti clandestini e la brigata ebraica hanno bocciato il piano, dunque il reperimento del veleno è diventato atto tremendamente difficile.

Dai rubinetti delle città tedesche – alla fine della guerra – non scorre certo latte e miele. A fatica  esce acqua potabile, ma almeno il rischio di bere acqua letale per la popolazione civile è scongiurato. Quando si programma la morte, tutto diventa importante e niente è trascurabile: nonostante l’ostacolo Nakam resta ancora la priorità.

Al veleno Abba non intende rinunciare, così tira fuori dal cilindro un secondo progetto noto come Piano B. E’ un piano che questa volta strappa i consensi dei gruppi sionisti ed i membri della brigata ebraica di stanza a Tarvisio. E’ un piano ritenuto più digeribile, perché al posto di avvelenare i civili con l’acqua, prevede che venga avvelenato il cibo destinato ai criminali di guerra nazisti ora prigionieri degli alleati vincitori.

A Tel Aviv Kovner incontra un biofisico – che un giorno diventerà Presidente d’Israele – e ottiene la pozione necessaria allo scopo. Insieme a quattro amici camuffati da membri dell’esercito britannico di stanza in Palestina, s’imbarca su un piroscafo che lo condurrà in Europa.

Il veleno è nascosto in scatole di latte condensato, ma non arriverà a destinazione. Qualcuno ha parlato e Abba viene fermato: in tutta fretta, il veleno viene gettato in mare. Abba viene ricondotto in Palestina, abbandonando per sempre l’Europa, la terra dei morti dove è nato.

Ma i vendicatori non sono ancora andati via. Frustrati da quella sete inappagabile, consapevoli che il Piano A è sfumato per sempre, non riescono a desistere. Non sono riusciti a dissetarsi e quindi ci tengono almeno a saziarsi.

E’ ancora buio pesto il 13 aprile 1946. Non è una notte qualsiasi: la notte scelta per programmare la morte di dodicimila prigionieri considerati criminali di guerra a tutti gli effetti è la notte di Pasqua. Due vendicatori si sono procurati l’arsenico: uno di loro entra nella panetteria dove è assunto e passa al compagno la pagnotta di pane nero, pronto a spennellarla, prima di riporla per non destare sospetti l’indomani.

Per ore, prima che faccia alba di nuovo, va avanti un’inesorabile staffetta: non c’è spazio per dubbi o per l’orrore.

La morte è pronta a farcire il pane spezzato in tavola, ma poi accade l’imprevedibile. Qualcuno entra nel locale e costringe i due membri del gruppo a fermarsi.

La loro opera interrotta non sortisce alcun effetto, limitata a un centinaio di intossicazioni e un paio di righe su un giornale locale.

Ecco perché in fondo, l’alba del giorno che segue la mancata strage è già un nuovo giorno. La guerra in Europa è finita, e i vendicatori sanno che, malgrado la sopravvivenza, loro l’hanno persa per sempre.
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