Cosa resta a Hillary?

Mio padre è sbigottito, me ne accorgo dalla sua voce. E’mattina presto, meglio dire che è l’alba. Mia madre gli ha appena comunicato la notizia che ha vinto Trump. Io ascolto dalla mia camera in silenzio, la notizia non mi sorprende: ero sveglio nel cuore della notte italiana, nei momenti in cui i volti e le espressioni di giornalisti, sondaggisti ed esperti di network nostrani e americani hanno furbescamente virato i pronostici favorevoli verso il tycoon. Voltando le spalle a Hillary.

Non potevano fare altrimenti. Dalla Florida, dalla Pennsylvania e dall’Ohio arrivano i voti pro Donald che non ti aspetti. Sono i voti degli stati chiave perennemente in bilico. Ma quello che giunge dagli swing state è il segnale decisivo.

In Italia è notte fonda, ma dall’altra parte dell’oceano no: il presidente Obama – rimarrà ufficialmente in carica fino al 20 gennaio – è ben sveglio e lucido quando lancia un comunicato stampa che sa di preghiera.

O piuttosto di elogio funebre alla carriera politica dell’amica Hillary.

“Comunque vada, domani sull’America sorgerà il sole. Restiamo un grande paese”. Parole che suggeriscono sincerità e serenità. Ma anche insonnia per il presidente e compagno di partito.

Da quel momento qualcosa si spegne: non è il mio televisore – come penso in un primo momento –  ma probabilmente è il cuore di un’America che pulsa e che credeva in lei, in colei che era destinata a diventare la prima donna presidente.

Ci hanno creduto star come Madonna o Beyoncé. Springsteen e De Niro. Ci ha creduto una parte del paese convinta che il sogno, anzi il miracolo, si sarebbe ripetuto dopo il primo presidente di colore.

Ma nelle democrazie di terzo millennio, presi dalla foga di voler tutelare – giustamente – chiunque, tendiamo spesso a dimenticare che le minoranze restano comunque minoranze: Hillary poteva contare su di loro, sui giovani e sulle donne che effettivamente non hanno deluso le aspettative dell’ex first lady.

Ma l’ex studentessa di Yale, a differenza del marito Bill, non si è dimostrata in grado di emergere. a sopratutto, si è sempre tenuta a distanza dalla gente. Nonostante gli abbracci e i selfie, il limite visibile era perennemente tracciato, prova di un confine invalicabile. Figlio di un passato che l’ha allontanata dalle masse.

Ha avuto anche colpe: lo scandalo legato alle mail, ma sopratutto non ha saputo sottrarsi alla spirale di colpi bassi, e alle trappole tese nei confronti tv che comunque l’hanno vista vincitrice. Pensava di usarle comodamente come arma nonostante lei e Donald si conoscano da tempo.

Già, presumo siano stati in buoni rapporti, dato che i Clinton erano tra gli invitati all’ultimo matrimonio di Trump.  Ma in Televisione hanno soltanto litigato, rimbalzandosi colpe legate a processi e inchieste che hanno inficiato una campagna elettorale a tratti pessima.

Cosa resta di Hillary?

Il suo passato oggi, all’indomani dell’election day, per lei almeno conta meno di tutto. Lo dimostrano il suo silenzio, la sua assenza al quartier generale di Manhattan dove invece si è recato John Podesta, responsabile della sua campagna.

Quest’ultimo ha pronunciato parole di elogio miste a prudenza: una cautela però che ancora una volta, ostinatamente, ha tentato di scacciare sino all’ultimo la rassegnazione di fronte all’incubo che si è materializzato.

Hillary ha preferito rimanere in silenzio, serrata in una suite di un albergo poco distante, congratulandosi con il suo avversario soltanto ore dopo.

Consolandosi, forse, per aver riscosso più voti. La solita vittoria di Pirro, perché  il sistema elettorale americano non tiene conto del numero di schede a vantaggio di uno dei due candidati. Conta invece il numero dei grandi elettori: ciascuno dei cinquanta stati, a seconda della popolazione, consegna a uno dei due contendenti un numero variabile di delegati che compongono camera e senato.

Per vincere bisogna raggiungere la fatidica soglia dei 270, e a varcarla è stato imprevedibilmente, ancora inspiegabilmente il miliardario che non ha nessuna esperienza politica alle spalle.

L’ennesimo voto di protesta contro l’establishment? Probabile, tanto che Putin non smette di ribadirlo con tono piuttosto soddisfatto.

Ma bisogna ricordarsi che a votare sono sempre e solo i cittadini. Coloro che hanno sbeffeggiato Trump hanno sottovalutato l’altra metà del paese che non credeva ai sorrisi di Hillary.

A volte palesemente improbabili, quanto la bizzarra capigliatura di Donald, ma sicuramente più genuina e – sebbene solo a tratti – meno inquietante. Lo ammetto, ho sperato come tanti che Hillary vincesse perché non volevo che vincesse un Repubblicano e perché non volevo che vincesse proprio lui, il tycoon che comunque ha saputo tenere a bada e infischiarsi della vecchia classe politica del suo stesso partito.

L’ex first lady ha corso per una vita, ma oggi ha il fiato corto. Ha rincorso qualcosa che le è sfuggito di mano e ad un passo dalla cima il sogno si è spento. Sogno che non le ha concesso tregue, all’indomani dell’ennesimo tour elettorale estenuante conclusosi a Philadelphia.

Non a caso, la prima capitale d’America. La città che fa venire in mente la guerra d’Indipendenza, l’alba del sogno americano, George Washington e la rincorsa di Rocky verso la cima di quella scalinata. Una vetta improbabile, eppure vera.

Tutto ciò che è mancato ad Hillary. La capacità di credere ad un sogno, ormai diventato pretesa. Una colpa e al tempo stesso una mancanca che in America non è perdonabile.

Ciò che l’ha allontanata dalla gente, la stessa che decide il tuo destino e ti osserva fino alla fine, perché la politica – nonostante tutto – ha a che fare con la realtà: è il presente, non è storia e non è finzione cinematografica

Cosa resta ad Hillary?

Tutto ciò in cui dice di aver creduto: i suoi ideali, la sua famiglia, il suo paese.

Se è stata sincera non avrà problemi a ricominciare. Del resto, la vita è un open ending. Un finale che resta aperto, incredibilmente avventuroso e misterioso fino alla fine.

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