
Donna e madre migrante: l’american dream in bianco e nero
Vedendo i film di Chaplin o John Ford, leggendo scrittori come Faulkner o Steinbeck, ho iniziato a desiderare di conoscere l’America come non l’avevo immaginata nei miei anni d’infanzia, quando la crisi che ha colpito l’Occidente non era di certo all’orizzonte. Mi sono affidato alla letteratura ed al cinema, mi ci sono affezionato. Non era stato necessario da bambino, quando ti affidi all’istinto e sei comunque più tenace; da piccolo vuoi credere anche ai fantasmi, anche se ti fanno paura.
Rimani deluso quando gli adulti ti rassicurano, dicendoti è stato il vento, non temere
Lo scrittore Mark Twain affermava
Non potete fare affidamento sui vostri occhi, se la vostra immaginazione è fuori fuoco
Se è dunque vero ciò, perché non cercare anche altro? Passano gli anni. Osservi e scarti tante cose che ti sanno di visto e rivisto. Infine, per caso, un giorno metti a fuoco e spunta una foto. Ti imbatti in uno scatto, e cambia tutto, forse è arrivato il momento di capire che si può andare oltre e tornare davvero indietro nel tempo, vedere cose impossibili al presente.
Donna e madre migrante. Guardi la foto migrant mother, la madre migrante, e scopri che l’autrice si chiama Dorothea Lange, figlia di immigrati tedeschi, nata nel New Jersey a fine ottocento.
L’America agli inizi del secolo è la terra delle grandi opportunità, è ancora la terra che tutti desiderano.
Dorothea non vive un sogno: a sette anni si ammala di polio. Non c’è melodramma, forse la sua malattia è un segno inequivocabile. Non vivendo una vita da sogno, deve crearla.
La ragazza è di lega robustissima. Si trasferisce in California, ed apre uno studio da fotografa freelance. Si concentra sui ritratti, sui visi degli americani che hanno smesso di sognare ed immaginare, e ne sono fieri, addirittura contenti. Non c’è niente da sognare, perché l’America è il sogno. È invece il resto del mondo a sembrare un incubo: l’Europa è lacerata dal conflitto mondiale, la Russia conta i morti delle sue rivoluzioni, l’Africa è sotto il dominio dei colonizzatori bianchi, depredata delle sue ricchezze.
Terra promessa. Fino al 1929 l’America è intatta, si balla il jazz, i morti della prima guerra mondiale sono eroi perché l’hanno resa la nazione più ricca e soprattutto più temibile. Perché voler immaginare di vivere altrove? Arriva il 24 ottobre, un giovedì nero, infausto; il 29 ottobre, il martedì successivo, un giorno ancor più nero.
I figli di quella terra laddove scorrevano latte e miele, resa ancor più ricca dal boom azionario, scoprono un incubo: ci sono milioni di affamati e disoccupati, si vedono visi smunti e si ascolta, anche da lontano, l’eco dei brontolii in stomaci vuoti.
I bimbi sono orfani anche per i suicidi che si susseguono tra gli adulti e dai volti dei senza tetto scompaiono ben presto anche le lacrime. Il presidente Hoover qualche anno dopo rassicura l’America e i suoi figli, dicendo che la prosperità è dietro l’angolo: un chiaro esempio di cattiva e insana immaginazione. Ad un certo punto Dorothea Lange capisce che non è tempo di rimanere nel suo studio e le viene commissionato un ampio reportage; il 6 marzo del 1936 è a Nipomo, in California.
L’incontro della vita. Dorothea non avuto una vita facile, ma nemmeno ordinaria. L’incontro della vita non avviene in un bosco fatato – dopotutto, l’uomo della sua vita l’aveva sposato un anno prima – ma in un campo di piselli dove una piccola tenda lacerata resiste alle intemperie. Dinanzi a lei c’è una madre migrante. I figli – non sono pochi, sono sette – le sono accanto.
Dorothea ha preso appunti nei messi passati, conosce la situazione di tutti i migranti della west coast, eppure quel giorno non chiede che pochissime informazioni. Capisce che le basta poco per andare oltre; negli occhi della madre c’è la risposta. Che non è voglia di tentare la fuga, come può capitare ad una donna che odia il suo presente. A una donna che, magari, non è madre.
La miseria che la circonda la spinge a guardare il punto più lontano possibile, ad immaginare l’impossibile perché è anche la più coraggiosa tra le donne. Probabile che veda ciò che c’è davvero oltre l’orizzonte e questo sforzo per lei è necessario. La madre migrante vuole prendere tutto il carico della miseria sulle sue spalle, nello stesso punto dove si appoggiano i suoi bambini che cercano protezione.
Il sogno in bianco e nero. Non ci sono social network dove sfogarsi, ecco perché la sofferenza rimane dentro e la dignità è ostentata. La forza di questa madre è tale da consegnare ai libri di storia il volto umano e impassibile di chi soffre senza scomporsi e non reclama pietà o compassione.
E per la fotografa Dorothea Lange, donna resa forte dalla propria malattia, arriva lo scatto della vita.
La migrant mother si chiamava Florence Owen Thompson, all’epoca aveva 32 anni. Negli anni settanta uno dei figli, Troy,smentirà in parte il racconto della Lange secondo il quale la Thompson avrebbe venduto le ruote della propria automobile per trovare del cibo. Lo fece con queste parole
“non c’erano ruote da vendere”.
Ma questa è un’altra storia e non solo perché nell’artista c’è lo zampino dell’immaginazione.
È l’altra storia dell’America, che nei decenni successivi vuole dimenticare la grande depressione economica degli anni trenta: storie come quelle di Florence sono sogni sbiaditi. Storie in bianco e nero che caratterizzano un passato lontano, quasi mitologico, forse mai esistito.
Fino a quando, qualche anno fa, lo spettro è tornato. Questa volta, l’hanno visto tutti.
“Il meglio deve ancora arrivare” lo disse Barack Obama subito dopo la sua rielezione nel 2012.
Ma è già un’altra storia: il primo presidente nero degli Stati Uniti sta per lasciare. Lui non ne ha colpa, ma il mondo non è certo un posto migliore. Però le parole profetiche, dette con garbo, tornano in auge ogni volta che c’è una campagna elettorale.
C’è stato il super tuesday e se dobbiamo fidarci di quello che dicono le urne – nella patria della democrazia è ancor di più un obbligo – l’unico nemico credibile contro il cattivo, cattivissimo Trump è una donna.
Ancora lei. C’è Hillary che scalpita, ma in fondo l’ex first lady non sa vedersi in nessun altro posto al di fuori dalla stanza ovale.
Hillary è americana fino al midollo. Ci ha provato e continua a ritentare, ma forse la donna di ferro è l’unica che sogna ancora. E lo fa a colori.
Il resto è cosa nota: la storia si ripete, ognuno decida con chi stare, tanto il meglio deve ancora venire.
“Non ho perso l’abitudine di credere che tutto debba ancora venire” è una celebre frase della Lange, che non ha conosciuto Obama, essendo morta nel 1965, quando il mito di John F. Kennedy era agli albori e l’America di nuovo una dreamland: una terra da sogno, di nuovo a portata di mano.
Reale, non da immaginare. In altre parole: un bellissimo inganno.
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