Yara e l’arcobaleno

Anche I bambini di Gaza lo sanno: l’arcobaleno è la trappola più ingegnosa che sia mai stata creata. Ecco perché fanno di tutto per esserci quando spunta in cielo. I ragazzini scampati alle bombe questa volta non hanno bisogno di correre per le strade, di fuggire, di sognare il futuro. Dopo la tempesta il cielo regala un meraviglioso presente. Inatteso e irreale,  ma che paradossalmente dà senso alle loro vita.

A Gaza e in Cisgiordania l’arcobaleno non dovrebbe essere solo un fascio romantico di luce. L’arco dovrebbe trasformarsi in un ponte che passa sopra muri e barriere, in un angolo del pianeta dove esistono ancora. Un individuo dovrebbe avere la possibilità di ammirarlo e al tempo stesso di ignorare trappole ed ostacoli tesi dai suoi simili.

Ma quando l’incanto finisce i bambini di Gaza tornano a giocare nelle strade, come facevano un tempo tutti i bambini del mondo a qualsiasi latitudine.

Febbraio 2015, Distretto di Tuffah: Ci sono quindici bambini che giocano in strada. Nel frattempo sopraggiunge un furgone e il suo autista non riesce a frenare. Li evita, ma travolge la più piccola e indifesa del gruppo.

Yara ha quattro anni ed è già chiamata a combattere la partita più importante. Non sta giocando più con i suoi amici, perché ora deve impegnarsi in un gioco più importante contro la morte. Parte la rincorsa disperata allo Shifa Hospital di Gaza: se non fosse vero, si potrebbe raccontarla come la scena di un film neorealista del dopoguerra. Immaginarla come un melodramma con protagonisti e lacrime finte.

Ma Yara è una bimba vera come tutte le altre e la sua sofferenza è atroce.

Bisogna rendersene conto: non esistono solo le bombe e le storie di guerra. Ci sono le malattie, anche quando le armi tacciono accadono incidenti come questo. Per carità, potrebbero verificarsi anche altrove. Ma esistono parti del mondo dove i bambini hanno stuoli di tate e baby sitter che li controllano e non sono costretti a giocare in posti pericolosi. Dove esistono gli ospedali efficienti e dove i medicinali arrivano.

La gamba di Yara viene amputata, comunque. Magari era inevitabile. Ma l’odissea – anzi la passione, visto che questa dovrebbe essere la Terra Santa – non è destinata a finire. I medici palestinesi non hanno i mezzi per curare questa ragazzina che non ha ancora spento cinque candeline su un’improbabile torta di compleanno: la sua gamba non c’è più e a causa dell’amputazione la necrosi si è impadronita del tessuto circostante.

Arcobaleno o no, a Gaza non c’è più nulla niente da fare. La soluzione è altrove, in territorio nemico. I genitori sanno che per salvare la figlia devono andare in Israele e richiedono l’autorizzazione ad Hamas.

Hamas ci pensa su. Incredibile, che si possa esitare. Incomprensibile, si dovrebbe dire.

Voi no, ma Yara si. Hamas nega ai genitori di Yara il permesso di andare, ma la bambina ha il nulla osta. Hamas stabilisce che ad accompagnarla sarà il giovane cugino.

Al Barzilai Medical center ricoverano Yara. Quelli che dovrebbero essere i suoi nemici la trattano bene. La segue Michael Varshavsky, il medico migliore in circolazione, nei tre mesi di assistenza e cure intensive necessari per salvarla. Non riceve il conforto dei genitori, ma è nell’età giusta per interagire e reagire. Una lottatrice che non teme di affidare il suo cuore alle attenzioni e premure di adulti che al di là del muro – quello reale e quello che fisicamente non si vede – giudicherebbe in modo diverso.

Yara impara l’ebraico, una lingua che per una palestinese non è solo un insieme di suoni ed idiomi, mentre suo cugino pranza e cena con lo staff medico dell’ospedale. Poi finalmente alla bambina viene impiantata una protesi; soltanto qualche giorno dopo sorprende tutti quando si rivela pronta a scendere dal letto.

Non sto parlando di miracoli o prodigi, tanto che la piccola alla fine è esitante e la sua paura rende la sua storia umana, verosimile e di esempio.

Per questo riceve il consiglio e l’aiuto di cui ha bisogno. Le parole giuste, le migliori.

Ho paura di cadere.

Tua madre e tuo padre ti aspettano dall’altra parte, le dice il cugino. Yara va avanti e qualche giorno dopo viene dimessa. Torna a Gaza, tra la sua gente. Il muro ovviamente c’è ancora.

yara gaza

….Dall’altra parte. In quella che dovrebbe essere una terra santa si ragiona ancora in termini di barriere. Ci sono eccezioni, ma in seguito alla prima e seconda intifada la mente di molti ha eretto pareti invalicabili.

Non ci sarebbe bisogno di vedere quel muro che gli israeliani hanno edificato utilizzando cemento armato, fortificandolo con torri di controllo ogni trecento metri, trincee profonde due metri e tutte le recinzioni possibili. Ma per quanto possa sembrare invalicabile in quelle centinaia di km di territorio nella Cisgiordania privata di alberi e terreni, martoriata e magari stuprata, si può – ogni tanto – superare quella trappola nata per esclusivo volere di alcuni esseri umani.

La storia di Yara lo dimostra, ma ce ne sono altre, che riguardano bambini, adulti, poveri e facoltosi palestinesi che oltre il muro tra i loro nemici hanno ritrovato la speranza e la vita. Grazie all’ultimo invisibile ponte che per fortuna invece esiste e resiste.

Sul cielo di Gaza nel dicembre scorso i bambini hanno visto e salutato addirittura un doppio arcobaleno, impossibile da catturare e da raggiungere. Yara forse quel giorno non era in strada – non come nel giorno che ha cambiato la sua vita – e non ha potuto assistere allo spettacolo. Ma il destino le ha riservato la possibilità di viverlo in modo diverso. Dal momento stesso in cui è riuscita ad attraversarlo, a farsi curare da quelli che dovrebbe considerare i suoi nemici, oggi come domani.

E’ tornata a camminare, è tornata alla vita, facendo breccia in un arco di luce che per un giorno è diventato il ponte ideale, perfetto oltre il muro che gli uomini hanno creato. Una ragione sufficiente per credere che un giorno, a differenza di tutti gli arcobaleni del mondo, quel muro non esisterà più.
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