Tutto questo non è un film

Percorro la corsia del reparto di quest’ospedale a grandi passi. Mi hanno lasciato entrare: del resto l’ora di pranzo è appena terminata. L’odore di cibo pervade l’ambiente asettico. Pensavo di avere fretta: di mangiare, anzi no, di inghiottire alla svelta questi ultimi metri che mi separano dalla stanza del mio famigliare ricoverato da giorni. Butto un’occhiata nelle stanze degli altri pazienti perché le porte sono aperte o forse perché le stanze sono più illuminate rispetto al corridoio.

Non sarò mai un medico sapiente, un infermiere premuroso e neanche un oracolo prodigioso: il mio è uno sguardo fugace e posso soltanto sperare che loro, in quei letti, non restino soli e abbandonati a loro stessi.

La porta della stanza dove devo entrare è chiusa. Mi tocca rispettare le regole e attendere; del resto non è la prima volta.

Ciò che invece non mi aspettavo è il buio che giunge qui proprio dove sono io. Fuori il vento ha spazzato le nubi e c’è un sole che splende, ma una nuvola improvvisa stringe con una tenaglia l’unica fonte di luce che di solito è accesa a quest’ora del giorno.

Mi avvicino alla finestra perché voglio ingannare l’attesa prima che il sole torni o che almeno la porta si apra. Sul mio smartphone in un baleno ci sono i volti di due signori che non conosco.

Proprio cosi. Laura e Howard appaiono sullo schermo. Nessuno li ha invitati, eppure una pagina di internet non chiusa precedentemente me li presenta. In un attimo, in Abruzzo, senza muovermi d’un passo, leggo la loro storia su un quotidiano nazionale e scopro che sono sposati da settantatré anni.

Grazie al video della nipote Erin, che sta filmando con un altro smartphone, percorro migliaia di chilometri in una frazione di secondo. Loro vivono negli States e io in una città italiana che sicuramente non conoscono. Tuttavia, siamo in un ospedale, dove parole e suoni si rincorrono. Fianco a fianco, come speranze e preghiere.

Fianco a fianco, come marito e moglie che vivono insieme da tantissimo tempo.

Howard è stato un soldato della U.S army, le forze armate americane, durante la seconda guerra mondiale; nel 1943 sua moglie Laura, sposata l’anno prima, ascoltava una canzone a quei tempi popolarissima.

Si tratta di You’ll never know, in italiano non lo saprai mai, che negli anni è stata riproposta da artisti come Frank Sinatra e i Platters.

Due anni prima della fine della seconda guerra mondiale, quando l’esito della guerra in Europa e nel Pacifico è ancora incerto, You’ll never Know vince l’oscar grazie anche all’interpretazione dell’attrice Alice Faye, che si ritirò dalle scene all’apice della sua carriera. In momenti cosi drammatici la musica consola, abbraccia, rallegra: tante donne come Laura, con mariti, figli e fidanzati al fronte, si affidano alla voce e alle parole di qualcun altro perché se da un lato il silenzio è insopportabile, le parole sono inconcepibili.

Inutili, magari insensate, a spiegare ciò che il destino ci riserva; anche perché la sorte di ognuno è imprevedibile, ma forse ce lo ricordiamo quando la storia si capovolge.

Coloro che sembravano i vinti, diventano vincitori. Per uno strano scherzo del destino coloro che sembravano spacciati sopravvivono, mentre quelli che sembravano sicuri e incolumi, soccombono.

Succede in guerra e succede in amore, anche il 12 settembre 2015. Howard è sopravvissuto ed è tornato dal fronte da ormai tanti anni. Ha passato la sua vita accanto alla donna che ha amato e che lo aspettava a casa, al sicuro, mentre lui rischiava di morire ogni singolo minuto. Ora ha novantatre anni e Laura novantadue. Ora è lui a cantare nel video filmato dalla nipote: you l’ll never know è la canzone intramontabile della loro vita.

Torna ad unirli nel momento in cui, invece, Laura sta per andare via e lasciarlo come mai avrebbe fatto prima.

Si affidano alla canzone, o piuttosto al segreto di un’esistenza che non può essere descritta a parole, quando anni che sembrano tanti in realtà non sono mai troppi.

Tutto questo non è un film, o piuttosto non succede solo nei film…Eppure un film è la prima cosa che mi viene in mente.

Nello specifico si tratta di The piano, un corto animato realizzato qualche anno fa da Aidan Gibbons.

Il protagonista è anche lui un uomo canuto e quasi calvo, che ha combattuto in guerra, al fronte dove ha conosciuto la violenza più lucida ed estrema. Per questo ha compreso l’amore.

La donna della vita appare per un momento, proprio quando sul pianoforte quattro mani suonano la celebre comptine d’un autre été di Yann Tiersen incisa anni prima per il film il Valzer d’Amélie.

https://www.youtube.com/watch?v=-ZJDNSp1QJA

Proprio cosi, anche l’uomo vecchio e ormai solo, che appare in un cartone animato di pochi minuti, sceglie la musica e sembra voler abbandonare le parole. In realtà sceglie di lasciarle a chi vuole capire, ossia al giovane nipote che appare al suo fianco.

Così come Howard e Laura non si nascondono e manifestano ciò che provano davanti alla nipote Erin, che al pubblico di Youtube, dei social e ai giornalisti tenta di far capire l’incomprensibile.

Ovvero l’amore che si manifesta e non ha bisogno di troppa luce o clamore. Non indietreggia di fronte alla vecchiaia, alla bruttezza se avanza, a stanze anguste cinte da pareti o porte chiuse.

La porta si è aperta, finalmente posso fare la mia visita. C’è un famigliare che mi attende, seduto con la schiena dritta. Non è amareggiato. E’ sereno, lucido, cordiale, curioso nel modo più genuino.

Quello che vedo però è il suo presente. Mi soffermo per un attimo su questa consapevolezza, ai ricordi di giorni che sembrano, e lo sono, lontani.

Ma per rendergli giustizia devo immaginare i suoi giorni più felici che non ho visto. I suoi momenti indimenticabili che non potrò raccontare, giustamente, a parole.

Vale anche per l’uomo sconosciuto che sta di fronte e che non riesce più a stare appoggiato al suo cuscino. Ha iniziato a tremare, ma suo nipote è li, lo sostiene e gli dice di non preoccuparsi. Finalmente quest’uomo riesce a distendersi e non trema più, quando per me arriva il momento di salutare e andare via, a passo lento.

Di nuovo lungo lo stesso corridoio che ho percorso all’entrata.

 
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