Qui dove l’erba non cresce

La confessione di Philomena Lee riguardo al suo passato non è uguale a quella di tutti gli altri e non potrebbe essere diversamente. Una prima, primissima risposta istintiva – forse superficiale – mi indirizza verso il suo libro e verso l’omonimo film candidato a quattro oscar, con la superba Judi Dench.

Cosa buona e giusta: in fondo, è cosi che quest’ex infermiera irlandese di ottantacinque anni sceglie improvvisamente di raccontare – fiera e determinata – al mondo intero la sua storia e il suo passato, taciuto sino a quel momento.

Quello di ragazza madre che negli anni cinquanta dà in adozione il suo primo figlio e lo fa per una lunga serie di ragioni. Frutto di inganni e di soprusi.

La confessione improvvisa e sconvolgente di Philomena – dapprima intima, poi planetaria – è destinata a condurre chi vi presta attenzione lontano nel tempo e nello spazio.

A Roscrea Philomena arriva nel 1949, come tante altre nelle sue condizioni: suo padre impacchetta e spedisce la peccatrice dalle suore che gestiscono una delle tante magdalene laundries – le famigerate Case magdalene – ossia istituti religiosi dove per decenni centinaia di ragazze irlandesi vengono ospitate e impiegate come lavandaie dalle sorelle devote a Maria Maddalena.

Costrette a lavare e stirare, per rendere bianchissimi abiti e lenzuola. Per  rendere di nuovo immacolata la loro anima.

Il lavoro è durissimo, ma è solo l’anticamera per l’inferno: in conventi più simili ai lager che a case di sollievo e carità, le ragazze madri sono sottoposte a maltrattamenti e abusi di ogni tipo. Detenute senza numero di matricola e senza possibilità di appello – o di scampo. Sorvegliate a vista, hanno contatti rarissimi con l’esterno, private di dignità e amore.

Chi predica amore e carità dal pulpito, condanna e marchia giovani donne senza ricorrere ad alcuna lapidazione.

Pubblicamente sono famigliari ed amici ora diventati nemici, a sporcarsi le mani: le autorità religiose che li confortano, li guidano anche nel momento in cui questi devono imprimere sul petto di quelle ragazze un marchio inequivocabile ed indelebile.

Quel marchio non è visibile, ma resiste: molte donne moriranno senza consolazione e senza speranze. Nella bellissima isola che splende davvero come uno smeraldo, l’ultima magdalene chiude soltanto nel 1996

Un anno prima che in Irlanda il divorzio diventi legale; vent’anni prima che un referendum popolare – tenutosi nel 2015 – sancisca il matrimonio tra coppie dello stesso sesso.

Mai senza mio figlio. Ma nell’isola dove ancora oggi l’aborto è illegale – anche in caso di stupri e gravi malformazioni del feto – molti bambini nati al di fuori del matrimonio sono stati strappati per decenni all’affetto di madri condannate ad un mea culpa perenne ed insensato.

Ma per le sorelle piene d’amore – i cui ordini si appellano solo formalmente al sacro o al gran cuore misericordioso – le ragazze madri vanno punite nel modo peggiore.

Tutte le giovani madri ospiti in questi istituti possono stare con i propri figli, ma questa è una concessione dettata dai tempi e dalla burocrazia:  le suore che gestiscono le case Magdalene si sentono investite del sacrosanto diritto di dare i bambini in adozione. In genere a famiglie americane, cattoliche e benestanti. Anche Philomena, a ventidue anni, deve firmare le carte che sanciscono l’addio, il più doloroso di tutti, per una madre.

Suo figlio Michael ha quattro anni e viene affidato ad una coppia americana. Da quel momento scompare dalla sua vista, ma non dai suoi ricordi.

Olocausto verde. Philomena Lee è ancora viva: l’ infermiera in pensione, divorziata e madre di altri due figli ha incontrato Papa Francesco nel 2014 per discutere di adozioni e tanto altro.

Ma il lungo e travagliato percorso di donne come lei – che siano esse vive o morte – non si arresta mai: anzi devia verso Tuam, nella contea di Galway.

Qui nell’ovest dell’Isola di smeraldo, a ridosso del Connemara, le torbiere premono sotto l’asfalto di strade strette e circondate da muretti in pietra. Qui si concentra l’essenza stessa irlandese: svettano croci celtiche e rovine che sanno di storie e leggende affascinanti. Qui, non distante dalle Isole di Aran e dalle suggestive scogliere di Moher, esiste un cortile pieno zeppo di cadaveri.

 

Sono 796 e non hanno nome, ma soprattutto, mancano voci e volti cui poter associare vite che – è triste ammetterlo – non hanno lasciato segno, se non per il destino amaro e tragico che li unisce a tanti altri. Questi 796 sono alcuni tra gli Unmarked graves che non rappresentano un’eccezione: sono tantissime le lapidi anonime in Irlanda, spessissimo appartengono a bambini e donne giovanissime di famiglie modeste e costrette a vivere all’ombra delle lavanderie della vergogna.

A Tuam sono sepolti 796 bambini morti di fame e stenti tra gli anni venti e gli anni sessanta.

E’ quello che ha rivelato qualche settimana fa la storica Catherine Corless; tuttavia non rappresenta una novità assoluta. Negli anni settanta il testimone Barry Sweeney – allora dodicenne – condusse sul posto adulti dei dintorni per mostrare ciò che aveva scoperto.

Un serbatoio travestito da contenitore zeppo di ossa – come rivela in un’intervista rilasciata al quotidiano britannico Indipendent – impilate l’una sopra l’altra, una lunga sequenza mestamente interrotta di tanto in tanto da resti di abiti consunti.

Per anni si è pensato che si trattasse delle centinaia di vittime di tante carestie che nel diciannovesimo secolo hanno martirizzato poveri irlandesi non ancora emigrati. Cosi la comunità ne ha presso atto, prima di sigillare il serbatoio e scavare una grotta.

Da quel momento, in quel cortile, nel cuore della verdissima Irlanda, l’erba ha smesso di crescere.

Ma la verità rompe muri e barriere e le tragedie – anche quelle dove i protagonisti non hanno nome – sfuggono alle regole del tempo: l’ultima vergogna legata allo strapotere che la Chiesa cattolica irlandese deteneva in passato, rende perennemente attuale la storia di un sopruso troppo a lungo sconosciuto.

Una sera lo zapping mi ha indirizzato verso un canale del digitale terreste dove andava in onda Magdalene, film di Peter Mullan premiato con il Leone d’oro a Venezia.

Ispirato alla storia di Mary Norris, Mary Jo Donagh e tante altre ragazze costrette a sopportare gli abusi nelle case dove esistevano lavanderie ben peggiori rispetto a quelle raccontate – soltanto in anni recentissimi – da libri, film o documentari.

Lo confesso: ignoravo l’esistenza delle magdalene fino al minuto prima. Cosi come ignoravo – forse perché non lo ritenevo possibile – che la storia della protagonista nel film omonimo Philomena fosse vera.

Invece Philomena Lee è esistita e vive ancora a Londra, nonostante il suo cuore si sia fermato,  a lungo, nel cortile del convento di Sean Ross a Roscrea. Dove lei è tornata dopo molti anni, proprio in questo millennio, in una mattinata d’inverno dove i prati verdissimi si sono tinti di bianco a causa della brina.

Lì dove sono stati infranti sogni e promesse. Responsabilità a lungo taciute, che andrebbero riconosciute. Finalmente confessate al mondo intero.
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