L’oro che avevo e la vita che volevo: la sfida di David

Alla fine soltanto grazie ad una foto incrocio – realmente – gli occhi di David Glasheen. Da quel che vedo, dovrebbero essere blu come il mare che circonda l’isola dove vive da un quarto di secolo, non distante dalla costa australiana. A onor del vero, Restoration Island è l’isola che nel 1789 salvò il famoso Capitano Bligh e i suoi fedelissimi dopo l’ammutinamento dell’ equipaggio a bordo del Bounty.

Bligh si salvò da morte certa. Un po’ per miracolo, un po’ per la sua esperienza di uomo di mare. Finito alla deriva, trovò ristoro grazie alle ostriche e alla frutta fresca che contribuirono a ritemprare il suo spirito e quello dei suoi marinai. Ovviamente, prima del nuovo battesimo in mare aperto a caccia di quel porto sicuro – in seguito trovato – da dove ripartire verso l’Inghilterra.

A distanza di due secoli, Restoration ha salvato un altro uomo. Il suo nome è David. Come Bligh David era a tutti gli effetti un capitano, uno di quelli che decide quando è il momento di salpare e quando è opportuno attraccare.

Non il capitano di una nave vera e propria: David Glasheen era il presidente di un’azienda che estraeva oro nelle miniere in Papa Nuova Guinea.

Uomo di successo, uomo di mondo. Uomo milionario capace di navigare a vista in un mondo di squali, prima di impattare contro l’onda anomala che lo travolge in un giorno di ottobre. E’ il 19 ottobre 1987 quando a Wall street, sulla terraferma, si genera uno tsunami finanziario che travolge tutto quello che incontra.

David rischia di affondare con tutto il carico di oro che ha accumulato negli anni. Si mantiene a galla, ma come Bligh sa che non ha molta scelta. Uomini come loro non possono semplicemente rimanere a galla: hanno sulle spalle la sorte di tanti altri uomini. Sopravvivere non è abbastanza, è tutta una questione di calcoli che vanno riconsiderati.

David si trova ancora al timone, consapevole che un’inversione di rotta, nel suo caso, deve necessariamente tradursi in un ritorno sulla cresta dell’onda.

Nel 1993 sbarca sull’Isola che si chiama Restoration: lo spirito dell’ uomo d’affari resiste, perché insieme ai suoi soci David ha in mente di costruire un resort di lusso. Ma la comunità aborigena locale non ci sta: i Kuuku Ya’u si oppongono e lo portano in tribunale.

Passano 4 anni e David ottiene un contratto esclusivo d’affitto dal governo del Queensland, valido cinquant’anni, che lo designa proprietario di un terzo dell’isola. Potrebbe farne ciò che vuole, se solo lo volesse.

Eppure, non vuole.

Forse è vero che anche dopo averla ritrovata, la strada smarrita non sarà mai più la stessa. David pian piano si lascia convincere da ciò che non è tracciabile, dallo stesso mare responsabile di quel percorso a senso unico che lo ha condotto lì, in un minuscolo angolo paradisiaco.

Dà retta all’istinto, che non è più quello del vecchio uomo d’affari. E’ l’istinto che ormai comunica direttamente con il paradiso, per questo è impossibile rinunciarci.

David decide di costruire un piccolo rifugio e abbandona l’idea del resort di lusso. Affossa quel progetto, abbandona i suoi uomini a un destino non tragico, ma sicuramente  incolore. I suoi vecchi soci però non demordono, si ribellano all’ex capitano dando voce alle loro proteste in un’aula di tribunale.

David Glasheen rischia di essere sfrattato, ma non molla di fronte alla sfida che è sicuramente la più difficile di tutte.

David vuole restare sull’isola dove vive con il suo cane, un esemplare di dingo femmina sempre fedele. Per continuare a gustare il cibo che è pesce da lui pescato, o magari ortaggi da lui coltivati.

Una volta l’anno torna sulla terraferma e fa provviste: beve birra, ma la vita selvaggia gli ha insegnato che l’acqua non va sprecata, semplicemente perché non “esce fuori miracolosamente da un qualsivoglia rubinetto”.

Come tanti altri, non nascondo di aver pensato a Robinson Crusoe di Defoe. Essendo figlio del ventesimo secolo, non potevo dimenticarmi nemmeno di Tom Hanks e del suo Chuck Noland in Cast Away. Ma proprio in quell’attimo, proprio nell’istante in cui mi sono sentito al sicuro grazie a citazioni e riferimenti presi in prestito da altri, ho rischiato di perdere la bussola e di finire arenato chissà dove.

La storia di David è diversa. Non è storia di sopravvivenza, non è la storia di un uomo disperso e disperato, seppur determinato, che sogna di tornare alla civiltà lontana anni luce.

Vuoi perché la civiltà da lui non è lontana – c’è un wi-fi a dimostrarlo e una connessione internet ad energia solare – vuoi perché David non è in cerca di redenzione. Direi che è possibile auspicare una sorte diversa da personaggi letterari o del grande schermo.

Perché nel finale del romanzo Robinson Crusoe viene ricompensato dal suo autore con un’eredità che toglie il fiato, mentre qui c’è l’uomo che non solo è fuggito dalla ricchezza, ma è scappato anche da tutti i tentativi di riacciuffarla.

David non ha salvato nessun selvaggio di nome Venerdì. Tentando in tutti i modi di mantenere viva una comunità intera presente da secoli, ha forse osato di più. Forse un giorno anche quel pezzo di mondo andrà perduto, ma anche allora si potrà dire che c’è stato un essere umano che ha saputo amarlo.

Guardando una foto, la storia di David sembra essere la storia di un uomo di settantatré anni dimagrito e con la barba lunga. Scavando tra le espressioni del suo viso e tra le parole da lui dette, cogli però il senso della storia di un uomo finalmente libero grazie a una scelta ben precisa.

Con la sua scelta, l’ex milionario ha sfidato il suo vecchio mondo per avere l’unica cosa che gli mancava: la vita che voleva.

 

( Ph. Brian Cassey per Daily mail )
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