Lo schiaffo di Jesse Owens

Storia di una ladra di libri è un bestseller dei nostri tempi.  Merito di Markus Zusak, il suo autore, ma come sempre la menzione la dedico ai suoi protagonisti. Già, la forza sta in loro, in quei giovani Liesel Meminger e Rudy Steiner che vivono in Germania, durante gli anni del nazismo e della guerra. Dove i piccoli sono considerati adulti da destinare alla Hitlersjugend, giovani figli di Hitler da formare. Infatti Liesel e Rudy sono tedeschi e proprietà del Führer: secondo gli indecenti canoni dell’epoca sono da considerare automaticamente e tecnicamente due ariani.

Ma i due ragazzini vanno oltre il mondo dei grandi, laddove per grandi intendo adulti, dittatori e statisti. Liesel protegge fino alla fine Max, giovane ebreo che i suoi genitori adottivi Hans e Rosa tengono nascosto in cantina. Rudy non aiuta gli ebrei, ma ha la passione viscerale per la corsa. E il suo mito si chiama Jesse Owens.

A proposito, Jesse è alto, ma non è biondo. E’forte, ma non è tedesco. E’americano, ma non è bianco.

Poco importa: quel giovane di colore nato in Alabama e che in realtà si chiama J.C, nel 1936 alle Olimpiadi di Berlino vince quattro medaglie d’oro: 100 m, salto in lungo, 200 m e staffetta 4×100.

Soltanto Carl Lewis, altro figlio del vento, farà altrettanto, nel 1984 a Los Angeles.

Rudy vince tre medaglie: non si tratta di Olimpiadi, ma di una festa della Gioventù Hitleriana. A differenza del mito inarrivabile Jesse, Rudy fallirà la gara più emblematica, quella dei 100 metri.

Gli stessi che hanno reso Jesse Owens famoso ai miei occhi per tanti anni: in fondo basta, pensavo,  trionfare davanti agli occhi di Hitler e i suoi compari razzisti. Mi sbagliavo e per fortuna sono andato oltre, anche se Rudy e Liesel sono stati più in gamba e neanche a dirlo, più veloci.

Lo schiaffo di Jesse. Per fortuna negli anni scopri che la vita e la storia di Owens non possono ridursi allo schiaffo – virtuale, ma forse il più forte mai dato – rifilato ad Hitler nel pieno del suo mito, al ministro Goebbels e tutti i gerarchi nazisti presenti.

Già, La vita di un uomo non si limita ad uno sprint: è resa sublime, ma significa molto di più dei primi piani che la regista Leni Riefenstahl immortala per prendere le distanze dalla politica razziale del Reich immortale.

A questo ho pensato prima di sedermi su quella poltrona in una multisala, quando già l’odore dei nachos aveva impregnato l’aria: Race, il film del regista australiano Stephen Hopkins, serve soprattutto a questo. E’ un biopic onesto che non ha bisogno di eccellere perché la storia del novecento e tanta vita vera sono servite sullo stesso piatto.

Quella dell’atleta americano più forte e di tutti i suoi amici, nemici ed avversari.

L’amico ariano. C’è quel salto in lungo – 8.06 m – che ha fatto alzare in piedi uno stadio intero che adora Hitler. Ma soprattutto c’è quell’abbraccio con il campione tedesco Carl Luz Long che sembra essere il sogno di uno scrittore o  di un regista, ed invece è successo davvero.

Luz, tedesco ed ariano, compie il gesto olimpico più bello. Arriva il momento clou: indica all’ avversario, che ariano non è, il punto esatto dove saltare perché non sbagli.

Luz arriverà secondo, ma quel gesto e la sua amicizia con Jesse lo aiuteranno a sopravvivere alla storia più di quanto non avrebbe fatto una medaglia d’oro.

Luz Long è quel campione che vive oggi più di quanto non sia vissuto ieri: muore da soldato in uniforme tedesca e lo fa onorando il suo paese, in una battaglia vicino a Caltagirone nel luglio del 1943.

Il Jazz e Berlino. Prima delle Olimpiadi Jesse vive in Ohio, nel Midwest. Negli anni trenta però la differenza tra il Nord o il Sud nella più grande democrazia del mondo conta poco. I neri possono bere birra, ballare il jazz e suonare il blues, ma in patria tutto ciò è possibile fuori dai campus, in quartieri poveri e lontano dalle dimore lussuose dei bianchi. Nel film ci sono rapidi cambi di fronte tra le scene ambientate in America e quelle in Germania: il jazz stempera questo passaggio, mitiga il dramma che colpisce i neri d’America, ma anche il gelo diplomatico tra i due paesi.

Anche l’America è un paese razzista che perseguita i suoi figli e questo aiuta Owens a vincere i suoi dubbi se gareggiare o meno nella Germania che perseguita i suoi stessi cittadini: per un uomo di colore – atleta famoso o comune mortale che sia – le differenze tra gli Stati Uniti che preferiscono i bianchi e la Germania che perseguita gli ebrei in fondo sono meno evidenti.

Race racconta la verità, quando nella Berlino nazista gli atleti di colore come Owens o l’amico Ralph Metcalfe – argento nei 100m e oro nella staffetta – possono sedere a tavola con gli atleti bianchi e dormire con loro

Non si potrebbe nemmeno li, ma c’è la facciata, c’è la propaganda: per gli atleti di colore è soprattutto un sogno che si realizza trent’ anni prima che Martin Luther King confessi di averne uno.

Jesse comunque resta sveglio: sa che gli ebrei sono discriminati: alla vigilia della sua ultima gara alle Olimpiadi tedesche difende i compagni Marty Glickman e Sam Stoller esclusi dalla staffetta l’ultimo giorno in quanto ebrei.

Devi fare ciò che ti è stato ordinato, tuona il bianco allenatore Cromwell.                  

Cosi Jesse fa quello che deve fare. Il bianco ha ordinato, il nero obbedisce. La storia si ripete, ma alla staffetta bianchi e neri si passano il testimone e arriva un’altra medaglia d’oro. Per lui è la quarta ed è un record. Per l’umanità è storia.

La donna con i pantaloni. Hitler nel film c’è, ma praticamente non si vede. Protagonista dell’ideologia nazista diventa Joseph Goebbels ed in fondo è meglio cosi: è lui l’ideatore della propaganda, è lui il principale nemico di Leni Riefenstahl che sta filmando un film monumentale sulle Olimpiadi tedesche.

La Riefenstahl è amica di Hitler, eppure è lontana anni luce dallo stereotipo della donna tedesca, moglie e madre prolifica.

Non ha figli e indossa sempre i pantaloni. Si sposa diverse volte – l’ultima volta a cent’anni – ma soprattutto non ha paura di filmare Jesse. Al suo ingresso nello stadio, la regista ha già individuato il protagonista indiscusso di Olympia, 400.000 metri di pellicola che richiedono due anni di lavoro per il montaggio.

https://www.youtube.com/watch?v=bNnDBAdF2sI

( Immagini di Jesse Owens min. 40; min. 59; min 1h.35 )

Roosvelt e Hitler. Hitler e Goebbels non stringeranno la mano di Owens, ma non lo farà nessun presidente americano fino al 1976.

L’amato e osannato Roosvelt non lo riceve nemmeno: Jesse arriva alla Casa Bianca soltanto quartant’anni dopo i suoi trionfi grazie a Gerald Ford.

Forse è vero, i record non contano. In Race c’è una scena emblematica, tra le migliori, quando il coach Snyder invita Jesse ad ignorare gli insulti razzisti della squadra di football. E’ ciò che dovrà tenere a mente, cosi come che c’è qualcosa che va oltre i numeri e le medaglie.

Rain and wait. In Race piove spesso. Piove quando Owens si allena, ma soprattutto piove quando aspetta che l’amata Ruth esca dal lavoro per farsi perdonare dopo averla tradita con un’altra donna. Jesse verrà perdonato, sotto la pioggia. Basta quella a battezzare un’unione felice e a consacrare l’attesa più lunga prima di fare la storia.

Tutto il resto è la vita di un uomo che non ha avuto nemici, ma soltanto avversari. Con buona pace di Hitler.

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