L’eco di infinite battaglie

Nel 1993 l’ufficiale Henry Worsley diventa MBE, cavaliere dell’Impero britannico. Ma più che attraverso un titolo, la sua vita può essere raccontata attraverso le battaglie che ha affrontato. Nel 1993 – l’anno di quel titolo prestigioso – Henry ha trentatré anni ed è impegnato su diversi fronti. Per capirci subito: fronti di guerra, dove le battaglie vengono combattute per davvero perché scorre sangue vero. Negli anni l’ufficiale Worsley lavora e combatte in tutti quei luoghi dove i conflitti sono lenti e non finiscono mai.

Basta citare luoghi come Irlanda del Nord, Bosnia, Kosovo, senza dimenticare quella trappola chiamata Afghanistan.

Pick a war out ti direbbe nella sua lingua. Scegli un conflitto qualsiasi verificatosi negli anni in cui è stato operativo e scoprirai che Henry lì ci è stato per combattere, prima di andare in pensione due anni fa dopo trentasei anni di onorato servizio.

Voltare pagina non significa però voltare le spalle al passato, ai tanti commilitoni, alle interminabili giornate di attesa in guerra o alle infinite battaglie. Dal giorno del suo retirement, Henry s’impegna per raccogliere fondi a nome di Endeavour Fund, ente benefico patrocinato dalla famiglia reale, nato con lo scopo di aiutare i soldati feriti.

Henry posa con William e Kate, è amico del principe Harry ed è elogiato da David Beckham. Diventa icona delle icone, ma dalla sua bocca non escono parole di autocompiacimento, perché la sua mente non partorisce entrate trionfanti nei salotti per raccogliere elogi e consensi.

Piuttosto, genera altri scenari, ben più estremi. Punta diritto verso il Polo sud, dove è già stato in  passato. A cinquantacinque anni è un uomo che ha combattuto tutte le battaglie possibili contro tutti i nemici possibili. Ormai l’unica sfida possibile resta quella contro se stesso, laddove l’unica ambientazione possibile è anche la più estrema.

Assalito dal desiderio di sensibilizzare il maggior numero possibile di persone verso l’ente benefico di cui è testimone, Henry decide di ripercorrere – in solitaria – le stesse tappe di un viaggio incredibile.

Quello del suo eroe Sir Ernest Shackleton, l’uomo che tentò di attraversare l’Antartide da un capo all’altro a bordo della sua nave Endurance. Pur fallendo nell’impresa, Shackelton riuscì nel miracolo salvando da morte certa tutto il suo equipaggio. Uno di loro si chiamava Frank Worsley e pare fosse un lontano parente dell’uomo che cento anni dopo tenta di iniziare e portare a termine quella missione (im)possibile

Henry pianifica tutto. L’attrezzatura e ovviamente la partenza, che avviene il 14 novembre 2015 dall’Isola di Beckner. Da quel momento, ogni singolo movimento sarà decisivo, perché tra lui e quel traguardo nell’angolo più freddo e remoto di tutti, c’è un numero infinito di passi che è impossibile da prevedere o calcolare.

Perché più che un altro pianeta, l’Antartide è la fine del mondo. E’ quell’area immensa e ostinatamente dipinta di bianco sul fondo di tutte le mappe geografiche del mondo. Quella zona che evoca venti fortissimi ed avventure mozzafiato, nomi – pardon leggende – come Amundsen e Scott.

 

L’ex ufficiale britannico però è sempre solo quando comincia così come quando continua. Come quando attraversa il Polo Sud ed ormai prossimo alla meta, ha già percorso 913 miglia sulle 1100 previste. Settanta giorni dopo la partenza, proprio mentre sta per diventare leggenda dei tempi nostri, il cielo sopra di lui si richiude. Arriva una tempesta che spazza il plateau antartico e una colonia di pinguini nelle vicinanze.

Amundsen aveva una tenda rossa. Henry ha la sua e la piazza lì per proteggersi, non lontana dal Mare di Ross dove è fissato il traguardo. Ma a causa della neve troppo soffice che ha reso estremamente duro e faticoso il proseguo, è ormai uomo giunto alla fine. Dalla stessa tenda che lo protegge, sventola una bandiera bianca: l’Sos è inconfondibile.

Prima che giungano i soccorsi, c’è il tempo per le ultime parole e per l’ultimo selfie, dove Henry si mostra al mondo diverso da come è sempre stato. In quei settanta giorni ha perso 23 kg. Ma il suo viso segnato distrae e confonde: da dentro, un nemico ben più importante si sta già facendo strada.

Quando arriva all’ospedale di Punta Arenas in Cile, la peritonite è ormai in stato avanzato. L’infezione si è fatta strada,  ha preso il sopravvento e il messaggio lasciato poche ore prima suona come mesto testamento. L’ex soldato perde l’ultima battaglia, però la parola fine non è quella più adatta.

Sicuramente non è quella da scrivere in fondo all’ultima pagina.

A ribadirlo, ci pensano i numeri, l’ingente cifra che l’impresa di Henry ha permesso di raccogliere nei mesi. Somma che andrà devoluta a tanti altri uomini, ex veterani feriti ed ora in procinto di ritornare ad una vita il più possibile normale.

A ricordarlo, ci sono e ci saranno sempre altre parole: quelle degli amici, dei colleghi e commilitoni, della moglie Joanna e dei figli Max e Alicia.

A confermarlo è un’immagine indelebile.

Le sue tracce sulla neve sono state spazzate via dal vento furioso, ma alla fine Henry Worsley ha avuto un’incredibile fortuna: ha lasciato un’impronta che resta. Coloro che verranno potranno vederla.

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