La Cina non è vicina

Come ogni anno in occasione del solstizio d’estate a Yulin si fa festa. Questa città nel sud della Cina non è un piccolo villaggio perché conta cinque milioni di persone. I numeri nel paese più popolato al mondo sono davvero relativi e seguono due destini: passano inosservati oppure impressionano. A proposito: in occasione del solstizio d’estate a Yulin, da vent’anni, arrivano diecimila cani. Duemila saranno macellati, cucinati, mangiati in un solo giorno.

C’è una Cina da digerire.  A bocconi amari, penso, perché non si tratta di ravioli al vapore o germogli di soia. Nell’anno in cui i media e il governo celebrano il cibo attraverso Expo, i piatti serviti a Yulin non vengono menzionati e rimangono tabù.

 C’è però l’hashtag #StopYulin2015 e il mondo social, quello realmente globale, chiede il boicottaggio firmando la petizione It’s No festival lanciata da Animals Asia contro il Festival.

Anche in Cina il cane è animale da compagnia, ma l’animale più fedele al mondo è considerato il simbolo della nuova borghesia: ecco perché nelle campagne il discorso è ben diverso e qualcuno non inorridisce di fronte alla loro uccisione indiscriminata.

I cani che verranno serviti come piatto forte a Yulin vengono rapiti da bande criminali e quindi stipati in gabbie piccolissime, poi sono sterminati a bastonate o magari con il veleno, oppure “semplicemente” sgozzati. Alcuni, tanti, troppi sono scuoiati ancora vivi.

Ci sono cinesi che però inorridiscono anche di fronte al dog meat festival. Xiao è uno di loro. E’ un attivista che combatte perché venga approvata una legge nel suo paese che stabilisca quali sono i comportamenti crudeli nei confronti degli animali. Xiao paga però come tutti gli altri: duemila euro per salvare i cani da una fine terribile, ma spesso la cifra non viene raccolta in tempo e cosi gli ospedali veterinari denunciano l’inadempienza e venticinque milioni di esemplari conoscono il più triste destino.

Venticinque milioni è un altro di quei numeri che impressiona, ma non ha ancora convinto del tutto. A Jinghua ci sono riusciti e la sagra del cane è stata abolita, ma Yulin è una tradizione che resiste.

 Si, ma da vent’anni. Niente in confronto alle migliaia di anni della muraglia o alla  dinastia Ming, questa sagra è cominciata praticamente ieri. Ma questo non importa, purché finisca domani.

Oltre Yulin c’è una Cina che non si può vedere. Per fortuna ci sono cinesi che bucano un muro, una cortina fitta come il muro di smog che attanaglia Pechino. Ma anche qualora riuscissimo a intrufolarci in una fabbrica come i due reporter Yan Liang e Lu Zheng, forse non capiremmo. Nella contea di Huahu i loro occhi hanno incrociato quelli dei bambini che tagliano e cuciono abiti. Alcuni non riescono più a guardare la luce del sole perché affetti da disturbi alla vista e mal di testa cronici.

Alla fine di una giornata di lavoro che dura quindici ore, Liu, tredici anni, manda giù un paio di analgesici. Per dormire, altrimenti non si sopravvive.

Se dovesse contrarre l’herpes a causa dei coloranti la sua situazione non migliorerebbe, ma a lamentarsi sarebbe il suo datore di lavoro, perché “ costretto” a pagare per i suoi medicinali.

C’è una Cina che non si può comprare. Liu è uno dei tantissimi operai che lavora in fabbriche lager disseminate nelle campagne del paese. Qui colossi e multinazionali – sparare marchi famosi è facile, indovinare lo è altrettanto – inviano anche degli ispettori, ma gli operai vengono avvisati in anticipo. Tutto viene pulito, disinfettato, sistemato. Probabilmente anche le mense, dove cinquanta lavoratori sono stati avvelenati da germogli di bambù marci. Probabilmente nascondono buste paga incriminate. Settantacinque euro al mese perché trentaquattro centesimi l’ora è una cifra considerata accettabile, tanto da essere ritenuta legale. Forse numeri trascurabili, ma considerato il contesto  impressionano e scandalizzano.

Ma gli operai finiscono di lavorare alle 23 e alle 6.30 devono essere in piedi, altrimenti ogni minuto di ritardo costerà loro una bella multa. Da notificare sulla busta paga. Ma per i capi sono solo dati, numeri, cifre. Appunto.

C’è una Cina da indagare, studiare e colorare. Sono i grattacieli di Shangai, la città che – dicono – prenderà il posto di New York. Per i suoi grattacieli, per le opportunità che offre, per le luci che la rendono la Parigi d’oriente, o piuttosto la sua perla o regina. Il porto più trafficato al mondo consolida la convinzione che l’economia cinese sia la più vivace al mondo. Una tigre – anzi un dragone – in forma più che mai e che investe nella scienza risorse umane ed economiche più di qualsiasi altro paese al mondo. Secondi solo agli Usa, ma il sorpasso è possibile. Non avveniristico, più probabile che sia scontato.

La Cina è colorata. Lontani i tempi grigi e delle biciclette nelle città, anche se Mao pare essere ancora vivo.

C’è una Cina da pregare. Mao è morto, ma nei taxi della natia Shaoshan penzolano dallo specchietto accanto al conducente foto – pardon icone – del dittatore . Nel ristorante Red Classic di Pechino le cameriere giurano di servire i clienti in nome di Mao. Ma anche questo non basta. Il ricco documentario di Niall Ferguson, la Cina è vicina, mostra il potere della a Maostalgia che resiste ancora oggi. Milioni di turisti cinesi vestiti con abiti firmati pregano in nome del loro Dio e si inginocchiano davanti a statue e immagini del dittatore.

Pellegrinaggio continuo, per un culto che resiste: siamo abituati ai misteri che circondano la religione, ma in Cina l’alone di mistero più grande circonda il tempo e la storia. Dio Mao ha causato più morti tra la sua gente rispetto a Hitler e Stalin.

 

Trentacinque o quaranta milioni solo negli anni più bui del Grande Balzo in avanti quando, dopo aver eliminato i grandi proprietari terrieri e ordinato che tutte le terre dovevano essere di proprietà comune, la Cina doveva trasformarsi in paese industriale moderno. Mao ha però fatto un gran passo indietro, perché poi arrivò la carestia e milioni di persone morirono.

Alcune mangiate, come i cani nella sagra di Yulin. Nella contea di Fengyang nei primi anni sessanta ci furono sessantatre casi di cannibalismo. Forse per questo Cheng Lee e suo marito bollirono il figlio di otto anni per mangiarlo.

C’è però ancora una Cina da amare e visitare: non solo la Grande Muraglia o la piazza Tienanmen, quella della protesta e del Rivoltoso sconosciuto. Ci sono le città di Gulin, Xiamen e le meraviglie che regalano i paesaggi naturali. Le rainbow mountains, montagne che nel nord ovest assumono i colori dell’arcobaleno, le yellow mountains o le pianure di Xiapu non lontane dalla moderna Hong Kong. Poi ci sono i terrazzi di riso, ovvero le risaie di Yuanyang estese per chilometri e chilometri. Scontato, ma non superfluo ribadire che sono Patrimonio dell’Unesco.

 

C’è una Cina da scoprire. Non si può farlo a casa. Magari è il caso di muoversi come fece Gladys Aylward, una cameriera inglese che attraversò parte della Siberia a piedi pur di raggiungere la contea di Yangcheng, nel nord del paese e dedicarsi alla vita da missionaria. Lo racconta un film con Ingrid Bergman.

All’ombra dei palazzi i cinesi camminano e lavorano. Vivono la loro vita in fila. E’impossibile contarli. Oggi sembrano più vicini, eppure ancora terribilmente lontani.

( Immagini tratte da google.com
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