Io mi ricordo. Un esame, un’estate e tanti domani.

L’sms di Claudia ce l’ho ancora stampato in testa. Mi è arrivato verso le diciannove. La mia storica compagna di classe mi chiedeva se era stata studiata una disposizione tattica dei posti. Per la cronaca, l’ho richiamata a casa soltanto due ore dopo: i nostri mezzi erano limitati, le mie risorse economiche pure, con forti ripercussioni sul credito del mio Panasonic.

Ho frequentato il liceo linguistico e se qualcuno me lo avesse nominato, avrei scritto What’s up e non whatsapp. Non avrei avuto colpe, perché Whatsapp semplicemente non esisteva.

Anno duemila: più che un anno, un simbolo. Claudia al telefono in quella sera di giugno mi nomina la rivoluzione russa come tema probabile, ma io mi rifiuto di (ri)studiarla.

Quella è una sera di vigilia e il confronto con i libri di storia mi spaventa, confido nel mio amore per la lingua italiana e in poche parole prive di enfasi.

Più che alle parole della canzone di Venditti, mi appello infatti al giudizio di Marina Pasquini, la mia prof d’Italiano. Lei non può leggere quello che sto scrivendo e non potrà smentirlo o confermarlo: ma una volta – e una volta soltanto – mi disse che scrivevo bene.

Dopo quel giorno, non l’ha più detto. Era il suo stile, suggeriva tutte le sue emozioni attraverso i suoi grossi occhi verde acqua.

Bastava a fomentare la mia adrenalina, non c’era bisogno di musica. Quell’anno Eminem spaccava con The Real Slim Shady, Madonna dominava le radio con la sua cover di American Pie del grande Don McLean.

Lui un modello per quei Rapper oggi famosi, e che in quegli anni indossavano grembiuli. Lei l’icona delle pop star oggi ammiccanti e all’epoca embrioni sculettanti.

Quelle e altre canzoni accompagnano il mio tranquillo arrivo davanti scuola che in un attimo si è trasformato in corsa convulsa. Non ricordo nulla, della corsa verso il banco fortunato. A distanza di anni la reputo un atto ingiustificato, più che un atto di furbizia. Avrei dovuto correre così in tante altre occasioni per prendere quello che volevo. E non l’ho fatto.

Comunque, non mi è stato difficile battere la concorrenza, anche perché su ventisette alunni noi maschi siamo l’assoluta minoranza. Ai fini dell’esame quella posizione – da me ritenuta strategica – servirà a ben poco, se non a ridere con la mia compagna di banco dell’ultimo anno e a rimediare i rimproveri della terribile prof di Biologia venuta da lontano.

I prof esterni erano impenetrabili, ma avevano compito facile: eravamo ingenui ed in fondo eravamo sempre stati diligenti. Inoltre, il cellulare nokia o motorola si sfilava da solo dal taschino, consegnato spontaneamente come l’arma spuntata di fronte al nemico armato fino ai denti.

A scuola l’accesso a Internet era limitato al laboratorio d’informatica. Dominio incontrastato del nostro prof. di Matematica e fisica, assente giustificato perché i prof interni erano altri.

Mi consola soltanto sapere che non ne avrei avuto bisogno, neanche oggi: agli albori del saggio breve, considerato ancora prova ardita e sperimentale, il 21 giugno del 2000 i miei occhi incrociano il titolo del tema di storia.

Forse commetto un peccato più che un reato, ma agli occhi di quell’ ambizioso diciannovenne che ha paura della Rivoluzione russa, l’Olocausto è un’ancora di salvezza.

Non potevo desiderare altro, lo ammetto: negli anni mi ero appassionato alla storia della seconda guerra mondiale e quel titolo risulta provvidenziale.

La comodità del tema mi dà il tempo di guardarmi intorno, di osservare, ma non capire. Oggi, ricordando quelle giornate indimenticabili che continuo a sognare di notte, mi ritrovo davanti ad un’esperienza che non potrà mai essere ripetuta.

Quell’esperienza è stata unica perché i suoi indiscussi protagonisti eravamo noi, io e i miei compagni della 5AL. Eravamo gli indiscussi protagonisti di quel piccolo mondo, in quella giornata dove tanti altri microscopici universi come il nostro correvano paralleli verso un traguardo.

Ma al posto di voler raggiungere quel traguardo prima del resto del mondo, avrei dovuto guardare e riflettere. Tentare di capire: guardando me e i miei compagni, divisi in due file dopo tanti momenti passati insieme, avrei dovuto intuire che il futuro era già davanti ai miei occhi.

Eravamo separati, nessuno era seduto accanto all’altro, ciascuno indaffarato con il proprio tema.

Ciascuno di noi da quel giorno doveva cavarsela da solo. Qualcuno è stato premiato, qualcun altro no.

Nel 2017, a trentacinque anni suonati, mi viene in mente Dickens, che divide l’umanità in buoni e cattivi, in uomini e donne fortunati. In esseri umani premiati o snobbati dalla buona sorte.

Quell’esame ti fa pensare che l’umanità possa in fondo essere classificata in prof buoni e prof cattivi, in studenti preparati e in studenti fannulloni.

La vita ti suggerisce altre sfumature. Nel lontano 2000 la giovanissima, ambiziosa prof di Matematica venuta da chissà quale Istituto me lo confermava già. Simpatica alla prima ora, decisamente ostile già alla terza. Una sintesi perfetta della follia umana che oggi mi stupisce meno di allora.

Ricordo benissimo il suo nome, ma non intendo menzionarlo. Merita di essere ignorato nei millenni.

L’esame è volato, nonostante l’immagine della cattedra, per anni percepita come un muro tra noi e loro. Oggi io sono finito – per coincidenze last minute – oltre quella cattedra. Sono diventato un insegnante per caso.

Tuttavia l’ho sempre spostata con la mente. L’ho sistemata in modo diverso perché in fondo il mio alunno non sarà mai il mio ex alunno.

Ma più di tutto, più dei ricordi nostalgici di ieri, penso allo studente di oggi. Perché viva  intensamente il suo esame di maturità senza paure.

Perché l’esame di stato capita a tutti.

Si presenta puntuale, in un’estate della tua vita: quell’estate è il momento perfetto per avvicinarti il più possibile ai tuoi compagni. A quelli belli e a quelli brutti, a quelli buoni e a quelli cattivi.

Glielo devi, perché gli anni passati con loro ti hanno permesso di guardare il mondo attraverso i tuoi occhi.

Malgrado le due file di banchi paralleli in lunghi corridoi, quell’esame è l’ l’attesa del domani che arriva. Del domani che è un altro giorno, seguito da tanti domani carichi di dubbi amletici o di aspettative migliori.

L’esame di quell’estate è parente stretto degli esami che verranno. Soltanto che questi scivolano via, lontani dall’intensa amarezza e dall’intensa gioia che accompagna la tua maturità.

Forse perché a distanza di anni ti ritrovi lontano da quei corridoi e da quei banchi. E molto spesso da solo.
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