
Il lampo nel cielo di Brema
Ho consumato il mio pranzo in fretta. E’ stata e sarà una giornata convulsa: devo lavorare fino a tardi, ma so che dovrò trovare il tempo di scrivere. Una questione di attimi e anche l’ennesima giornata volata via si trasforma nella serata tranquilla, dunque perfetta, per trovare le parole giuste. Magari adatte a parlare del 27 gennaio, della giornata della memoria. A tradurre quei pensieri che volano ai cancelli di un campo polacco che si aprono.
A proposito di memoria, non sono necessari i ricordi. Non ero – per ragioni anagrafiche soprattutto – ad Auschwitz. Però oggi, 26 gennaio, alla vigilia di quel giorno del calendario dove batte a martello quel refrain nobile, ma un tantino stantio, per non dimenticare, mi rendo conto che per avere memoria molto spesso conta sapere.
Chi ti dà il diritto di sapere, chi te lo offre su un piatto d’argento?
Semplice, penso, quelli che nascono, vivono o magari passano a miglior vita prima di te.
I più anziani, magari i tuoi stessi nonni, non amano fare discriminazioni quando si tratta di insegnamenti o ricordi.
Ma poi ci sono quelli che scrivono sui giornali, che conducono programmi e lodano se stessi dicendo che fanno informazione e offrono contenuti educativi.
Di loro vorresti fidarti, ma non è sempre possibile.
26 gennaio 1966. Esattamente cinquant’anni dopo sono seduto in cucina. Il pasto è buono, ma frugale. La giornata è stata pesante e non è il caso di usare troppi condimenti. All’improvviso questa giornata dove il sole è tramontato da un pezzo, si trasforma nel 26 gennaio 1966. Alzo il volume del televisore e ascolto in silenzio.
Scorrono delle immagini in bianco e nero: il cielo, scuro, fatto di nubi dense e di un bianco e nero che non è fatato, è quello di Brema, nord della Germania.
A distanza di pochi metri dall’aeroporto, un bimotore Convair della compagnia Lufthansa proveniente da Francoforte si schianta poco oltre la pista lasciando un’ultima traccia, dicono: una luce abbagliante nel cielo.
Il tempo di un lampo, necessario perché accada l’inevitabile
Quel bagliore ingoia le vite di quarantasette persone, ma soltanto oggi – e credo si tratti di una pura fatalità – scopro che in quella tragedia morirono sette nuotatori della nazionale italiana, quattro ragazzi e tre ragazze, nonché il mister Paolo Costoli e Nico Sapia, un cronista della Rai.
Questi ultimi partiti all’ultimo momento.
Destino invincibile. Costantino Bubi Dennerlein aveva un carattere ostinato. In rotta con la federazione per alcune scelte, fu sostituito da Costoli.
Lui ci teneva a ricordare che il nuoto si stava trasformando e indubbiamente aveva ragione. Lo sport si apprestava ad entrare nelle case con maggiore invadenza, a diventare spettacolare, ad uscire da quel bianco e nero che comunque associamo a campioni indimenticabili e serate da leggenda.
Caparbietà e testardaggine servono per il trionfo, ma nel caso di Bubi anche per sopravvivere:
L’allenatore di Novella Calligaris non partì per il meeting di Brema. E si salvò.
Per vincere ci vogliono fisico scultoreo e volontà di ferro, ma talvolta il migliore alleato è il destino.
Ostinata gioventù. Il più vecchio aveva 23 anni, Si chiamava Bruno Bianchi ed era di Trieste, ma lavorava alla Fiat come l’amico Dino Rora. Anche i compagni Amedeo Chimisso e Sergio De Gregorio facevano sacrifici: il primo faceva il fattorino, mentre il secondo si allenava di notte. Ma anche le donne si dividono tra allenamenti duri, studio e sogni covati in segreto.
La delfinista Daniela Samuele aveva riposto in valigia, dicono, un abito di chiffon non distante dal suo accappatoio personale. La dorsista Luciana Massenzi era volata in Francia per allenarsi al meglio. Carmen Longo, ranista e liceale bolognese, tra un allenamento e un altro appuntava frasi di Saffo sul suo quaderno.
“Né più alcuna memoria rimarrà di te”: una premonizione tragica, direi assordante.
Ma non per quello che è successo quel giorno, ma il giorno dopo ed il seguente. Quindi tutti gli altri.
Perché non conosco questa storia? Ne ho colpa io, o hanno colpa gli altri, quelli che fanno informazione?
Nel frattempo la chiamano Superga dimenticata, ma io voglio sottrarmi a questa scelta. Non è giusto per le vittime di Brema e neanche per giocatori come Bagicalupo, Mazzola, Loik morti nel 1949 in un’altra giornata triste, di nebbia che unisce cielo e terra, di pioggia battente che colora l’erba di fango.
C’è il cielo su Torino, c’è il cielo sopra Berlino. E in una serata fredda di fine gennaio, a trentaquattro anni, ho scoperto che c’è il cielo di Brema illuminato da quel lampo.
Forse aveva ragione Buzzati, “un paese che non sa stare a galla” non è il luogo perfetto per serbare memoria di ragazzi semi sconosciuti che passavano ore e ore ad allenarsi in una piscina. Il giorno che segue qualsiasi tragedia sembra essere il giorno perfetto per ricordare. Tutti si illudono che il ricordo rimarrà intatto, inviolato, puro. Magari dalla nebbia sbuca persino il sole, a rendere più facili le cose, a rendere quella memoria universale.
Sono stato a Superga, cinquant’anni dopo quel 1949. Ero giovanissimo, c’era il sole a gettare luce nuova su molti nomi a me sconosciuti. C’era il silenzio dei presenti, delle mie amiche Marzia e Serena, del padre tifoso granata. Superga non l’ho più dimenticata.
“Hanno camminato tutta la vita accanto a me. Non c’è stato giorno in cui non mi sia rivolta a loro, e ci siamo fatti una risata insieme”. Finalmente, quei giornali distratti, mi imbatto nelle parole dell’ex nuotatrice Daniela Beneck. Lei li conosceva, lei li amava. Quella voce buca per un attimo la cortina di nebbia
Il 4 maggio, come il 26 gennaio.Non ricordare è come rubare: gli attimi che dedichiamo ai ricordi sono preziosi, ma quando ciò non avviene si trasformano in istanti mutilati.
Impoveriscono giornate, le nostre, che spesso non sono destinate a fare la differenza.
A proposito, a Brema in un lampo si sono dissolti orizzonti di gloria. Sogni di trionfi legati a secondi che invece fanno la differenza perché riscattano anni di duro lavoro.
Domani, all’alba di un’altra giornata, lo terrò a mente. Lo spero.
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