Il barbone e l’imperatore

Hiroo Onoda è morto l’anno scorso, il 16 gennaio. Ricordo di aver letto quella notizia in gran fretta e di essermi chiesto come mai un nome cosi dannatamente sconosciuto occupasse pagine di giornali. Su carta e sul web, in quei serpentoni – notizie flash in stile anglosassone – che scorrono in basso durante i notiziari televisivi. Ovunque spuntava fuori il nome di quel novantenne giapponese.

Poi ho scoperto il motivo: Hiroo era il soldato fantasma, rimasto per trent’anni nell’isola occidentale di Lubang a largo delle Filippine. Quando lo ritrovarono nel 1974 ignorava che la guerra fosse finita, che il 1945 è ancora l’anno buio del suo paese nonostante le luci abbaglianti di Hiroshima e Nagasaki. Del buio venuto fuori in seguito ad una resa senza condizioni.

Per anni, dopo aver mangiato frutta e radici, riuscì a sfuggire a chiunque, anche agli stessi giapponesi che aveva scambiato per nemici.

Hiro è stato ritrovato il 9 marzo di quell’anno: come è accaduto al suo paese, capace di rialzarsi dalle macerie e dominare l’economia, negli anni seguenti Hiro ha intrapreso varie attività lavorative redditizie e di successo. E’ stato imprenditore, filantropo, ma soprattutto intraprendente.

L’hanno semplicemente rintracciato, ma è stato lui a ritrovarsi.

Riappropriarsi della propria vita e del proprio nome è già un’incredibile avventura. Dunque non c’è bisogno di evocare foreste, naufraghi sbattuti su un’isola deserta che sopravvivono miracolosamente.

Nella giungla urbana sopravvive anche Rolf Bantle. Anche questa volta, al primo impatto, questo nome letto durante una pausa lavorativa non aggiunge e non toglie nulla alla mia vita e alle mie conoscenze. E’ un pensionato svizzero di settantuno anni, dopotutto, non una rockstar o un attore di successo.

Ma sono ingiusto e superficiale, e riconoscendolo anche questa volta vengo premiato. Tuttavia l’avventura di Rolf è meno romantica ed esotica rispetto a quella di Hiroo. Non ci sono foreste impenetrabili e guerre da combattere, nemici da uccidere e commilitoni da salvare: lui non è tornato a casa perché si è perso dopo essere andato in bagno, a San Siro.

Stava assistendo alla partita del suo Basilea, ma sul quattro a uno per l’Inter, a partita ormai persa, Rolf si è ritrovato disorientato, solo, non ha saputo ritrovare la sua lunga strada verso casa.

Quella partita nella mia memoria non lascia traccia,  non credo di averla vista. Nel frattempo Rolf stava perdendo il contatto con il suo presente e la sua vita precedente. Da quel momento, con soli venti euro in tasca, Rolf ha iniziato un’altra vita. Si è perso e ha vagato per le strade di Milano, dormendo spesso all’aperto o in ricoveri pubblici.

Senza una casa e senza un’identità questo ex alcolizzato ha provato l’ebbrezza di sentirsi libero, come ha ammesso lui stesso.

Rolf è un sopravvissuto proprio come Hiro, che è riuscito a cavarsela nella foresta grazie a piante, radici e acqua piovana.

We don’t need another hero, cantava Tina Turner…Manca infatti un atto eroico, ma spicca la generosità.

Quella degli studenti del quartiere Baggio che lo ribattezzano Rudi e gli danno cibo, quella delle ragazze e delle signore che lavano i suoi abiti.

Rudi però nutre anche il suo cervello, grazie alle librerie e alle biblioteche che non smette di frequentare. Non sembra dolersene, tuttavia c’è spazio anche per il dolore che giunge undici anni dopo quella partita giocata il 24 agosto 2004. Rolf si rompe una gamba, per l’esattezza il femore. Il consolato svizzero viene chiamato e paga le spese.

Una rottura di femore, l’impossibilità di camminare e muoversi liberamente. Questo mi viene in mente e questo accade. Rolf, immobilizzato in un letto d’ospedale, viene cosi rintracciato e si risale alla sua vera identità. Rimasta offuscata per anni, favorita dalle brume del capoluogo lombardo, dalle sue vie, dai suoi cortili discreti e nascosti.

Ma potrebbe accadere ovunque e a chiunque, penso, perché il destino è una creatura tentacolare spietata.

Coloro che sembrano destinati a stare nell’ombra, o sugli spalti. Oppure coloro che rimangono sotto la luce dei riflettori, in campo, e sembrano conoscere solo trionfi.

 Già, in quel 24 agosto 2004 mentre Rolf smarriva la sua strada tra i meandri del Mazzo, a pochi metri di distanza, in campo e sotto le potenti luci dei riflettori, c’era Adriano Leite Ribeiro.

Lo chiamavano l’imperatore, ma ogni volta che questo ex giocatore brasiliano torna ad essere al centro delle cronache tutti citano quel soprannome che sa di gloria per esaltare la caduta rovinosa, la fine ingloriosa di un uomo che non è riuscito ad affrontare i suoi problemi.

Anche in passato imperatori e comandanti non hanno mantenuto le promesse: le 205 reti segnate in carriera in anni di militanza in serie A e nelle file della seleçao non cancellano l’immagine appesantita e triste di oggi.

Figlia di un lutto mai sopito. La morte di un padre che ha originato una voragine e stroncato l’agonismo, la voglia di fare e di vivere di un giocatore che aveva tutto.

Quando parlano di lui i giornalisti usano il termine parabola, che inevitabilmente rimanda ad una salita ed una discesa.

Non c’è più spazio, nessuno spende più parole per la corsa in campo di Adriano Lite Ribeiro.

Tite, suo allenatore ai tempi del Corinthias, ha rilasciato interviste che sanno di condanna.

“Ho provato vergogna per lui”, ha detto, riferendosi a una festa dopo lo scudetto del 2011.

Un trionfo che sa di finto, anzi di sconfitta personale. Leggendo quelle parole ho immaginato il solito mondo fatto di droga, sesso, alcool, festini. L’ex imperatore non siederà più sul suo trono, ma ha ancora la possibilità di imboccare una strada e riprendere il cammino.

Perché a differenza di Rolf, suo spettatore in quella serata cosi lontana e che tra mille problemi ha fatto pace con il suo presente, tutto il resto è noia.

Non bastano le luci, non c’è più voglia di ricordarle.

Eppure anche lui c’era, la sera in cui Rolf sparì.

Aveva ragione Vecchioni

Luci a San Siro, che c’è di strano siamo stati tutti là.

 

 
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