Ho davanti gli anni migliori. O forse no: confusioni di uno xennial
Sono uno Xennial e a quanto dicono, dovrei esserne orgoglioso. Qualche professore emerito che vive down under, ossia dall’altra parte del mondo, mi definisce così. Ovviamente non sono l’unico Xennial su questa terra: perché a popolare questo satellite sorto da poco ci sono milioni di miei “simili” nati in un momento storico ben preciso.
Io, come tutti, nato in un momento imprecisato tra il 1977 e il 1983 avevo tra le mani il game boy e riavvolgevo i nastri con le matite. Ho assistito impassibile alla morte dei telefoni a gettoni perché nel frattempo riuscivo – finalmente – a infilare in tasca un cellulare che riusciva persino a inviare messaggi e – soprattutto – ad entrarmi nelle tasche dei pantaloni.
Sono Xennial e me ne vanto: perché a seconda di sociologi eminenti io farei parte di quella che è la generazione migliore, tanto che il sociologo Dr. Dan Woodman da Melbourne ha pensato bene che valesse la pena sforzarsi per darci un nome.
Dan Woodman ha neutralizzato persino un nemico-amico inossidabile come la nostalgia, perché lui e altri sociologi travestiti da profeti utilizzano la parola fortuna. Dicono che siamo fortunati.
Di cosa? è la domanda che spontaneamente e incolpevolmente sorge spontanea. La risposta è la migliore possibile: abbiamo ancora abbastanza tempo e indiscusse capacità per esplorare questo nuovo mondo attraverso i nuovi mezzi a disposizione che noi stessi abbiamo contribuito a plasmare.
Questo è ciò che permette allo xennial di avere la rivalsa sui suoi genitori, i figli del boom economico o baby boomers, nonché quelli nati a cavallo tra i sessanta e la metà degli anni settanta, ossia la generazione X che ha preso possesso del mondo durante gli anni ottanta e novanta.
Decadi che lo xennial ricorda. Ma che non ha sfruttato a dovere per ovvie ragioni.
Sono Xennial e ricordo è un principio innegabile: ma io, xennial, non ho goduto pienamente di quel mondo dove potevi ancora permetterti di sentire lontane guerre anche vicine. La spensieratezza di quegli anni è dura a morire, incancellabile nei ricordi come i drammi di chi ha avuto meno fortuna.
Lo xennial in realtà conosce, ma non si gode e non si è goduto nessuno dei due mondi. Lo xennial compatisce i millennials, gloriandosi di un’adolescenza più libera e felice. Ma nel farlo, pecca di superficialità: perché dimentica di essere stato allevato in un mondo di certezze.
Tu xennial come me, nascevi e ascoltavi i più grandi – i festaioli e felici baby boomers diventati adulti con le spalline e i capelli cotonati – fare progetti su di te. Loro erano i tuoi genitori e ti prospettavano il mondo delle meraviglie perché le immagini brutte appartenevano ai loro genitori, ai libri di storia e a paesi lontani che se volevano loro potevano ignorare.
Lavoravano, producevano e risparmiavano: allo xennial semplicemente non è più possibile. Incastrato tra due mondi, perennemente indeciso su cosa fosse meglio e su cosa è peggio, lo xennial, a differenza di chi è venuto dopo, ricorda tutto quel mondo delle meraviglie. Ripetutamente torna a peccare di vittimismo, a comportarsi come chi chi ha assaggiato il vino migliore tra tutti e deve accontentarsi – per il resto dei suoi giorni – di una bottiglia dal sapore ordinario.
Lo xennial ha dunque il compito più affascinante e insieme il più difficile: sintetizzare i due mondi e crearne uno nuovo. Ogni giorno sbarca su questo pianeta e lo esplora per mettersi quotidianamente alla prova. Assaporando il meglio e conoscendo il peggio. Perché per ora il meglio tocca sempre agli stessi: lo scrivo senza rimpianti e senza rancore. Potrebbe non essere così. Magari mi sono sbagliato. Magari tutto è il frutto di un equivoco e di un pizzico di sana confusione.
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