Hiroshima anno zero

Il capitano Van Kirk, detto l’olandese, è su un aereo a pochissima distanza dalla cabina dove si trova il pilota, il colonnello Paul Tibbets. Non sono soli: l’equipaggio è composto da dodici uomini addestrati da tempo. Volano dalla scorsa notte e da poco sono passate le otto: tra pochi istanti la seconda guerra mondiale finirà. Ma soprattutto il sole cadrà sulla terra e il tempo si fermerà. Solo che loro non lo sanno ancora.

Il maggiore Thomas Ferebee urla: I got it!  Ha appena visto il ponte Aioi ed è quello il luogo prescelto per l’esperimento più infausto della storia dell’umanità. Thomas procede nel suo intento e lascia cadere Little boy che sino a quel momento è stato loro compagno di viaggio a bordo del bombardiere B29 Enola gay.

Il nome non deve però ingannare: little boy non è un ragazzino in carne ed ossa. Little boy è in acciaio, è lungo tre metri e pesa 4037 chilogrammi. Van Kirk conta quarantatre secondi – cosi gli è stato detto di fare – ma apparentemente non succede nulla.

Forse non ha contato bene. Negli anni a venire non sarà mai in grado di stabilire quanto avesse aspettato perché il bagliore di luce più accecante che si sia mai visto ad un tratto ferma tutto.

Non esiste più giorno, né notte. Non ci sono minuti, secondi, cieli limpidi o carichi di nubi. Case o persone.

E’ come se il sole fosse caduto sulla terra, diranno, ma per ore e ore il sole sulla città di Hiroshima non si vedrà. Sulle pietre e sui detriti resteranno però impresse le ombre di settantamila abitanti che non vedranno l’alba del giorno dopo.

Laggiù, in basso, vive la famiglia di Keiji Nakazawa. Suo padre è un fervente pacifista, un caparbio oppositore dell’Imperatore Hirohito, che si considera una divinità sulla faccia della terra benché sia accecato dal fanatismo di uomini comuni.

Keiji ascolta e assorbe tutto ciò che suo padre dice, nonostante abbia solo sei anni. Insieme a lui ci sono i suoi fratelli e sua sorella, mentre la madre, donna sposata e incinta, ha il temperamento giusto per tenere testa al marito in una società patriarcale.

E’incinta, pronta a dare nuova vita anche il 6 agosto 1945, quando nel Giappone che non si è ancora arreso ai vincitori della guerra, le lancette non fanno più un passo.

Little boy tocca terra alle otto e sedici e nei secondi successivi – lecito dubitare per un attimo che ci siano stati – lo spostamento d’aria di inaudita violenza rade al suolo tutto ciò che incontra. Coloro che si trovano nel raggio di cinquecento metri evaporano letteralmente e non si troveranno mai più. La pelle si stacca dai corpi, le persone si gettano nei fiumi pronti alla fuga disperata e senza senso. Perché queste persone muoiono prima degli altri a causa delle radiazioni e delle altissime temperature.

A casa di Keiji sua madre intanto è sotto le macerie. Il figlio più piccolo urla che fa troppo caldo, mentre la figlia Eiko già non parla più. Le macerie l’hanno protetta dalle fiamme che divampano tutt’intorno e hanno stroncato la vita di suo marito. La signora Nakazawa vorrebbe morire li, ma un amico accorre e la salva, trascinandola letteralmente via e mettendola finalmente in salvo.

Le ricorda che ha ancora una ragione per vivere: Keiji e i suoi fratelli più grandi – che si trovano altrove – sono salvi. C’è anche una bambina da mettere al mondo, quel 6 agosto 1945.

Torna a splendere il sole su Hiroshima, dopo che per molto tempo è stato coperto da una nube a forma di fungo che l’umanità non dimenticherà mai.

Keiji ha ancora sei anni, nell’anno zero di Hiroshima e del genere umano. Sta scavando con pala e secchiello per recuperare i resti dei suoi famigliari: trova subito lo scheletro del fratellino e di suo padre. Hanno un’espressione non facile da decifrare, mentre sua sorella Eiko sorride. Non ha più la pelle sul viso, ma la sua bocca tradisce un sorriso che per una madre è consolatorio.

Significa che è morta all’istante: indubbiamente il modo migliore per non accorgersene.

Keiji non prova lo stesso sollievo. Ha i brividi sotto il sole cocente e i suoi capelli si drizzano perché con gli occhi ha visto l’Apocalisse e sa che esiste qualcosa che miliardi di esseri umani non comprenderanno.

Hiroshima, giorno uno. Ve ne saranno parecchi simili. Dopo la guerra e con l’arrivo degli Americani Keiji deve sopravvivere davvero. Lottare con la quotidianità e studiare, lavorare, sudare, persino cucinare.  Oltre centomila persone sono morte e altrettante porteranno i segni sulla pelle – e  non solo – per testimoniare ciò che le parole non riescono a descrivere.

Non solo le parole, anche il tempo non conta quando la storia dell’umanità si azzera.

Nell’anno zero di Hiroshima, cosi come a Nagasaki, gli Hibakusha – i sopravvissuti – devono ricominciare a guardare avanti. Ma c’è chi, come Keiji, resiste perché forse è destinato a qualcosa che va oltre la semplice sopravvivenza. Sceglie di vivere e persegue il suo obiettivo nell’unico modo che conosce: ha sempre amato disegnare, nonostante la madre temesse che suo figlio si rivelasse artista poliedrico e sovversivo come suo padre.

Keiji è malato, ma cresce. Nel Giappone del dopoguerra nessuno guarda con compassione agli hibakusha. Nel Giappone che si appresta a diventare la potenza tecnologica e industrializzata che conosciamo oggi, i criminali di guerra non vengono perseguitati mentre Keiji è vittima di bullismo e dei pregiudizi. Negli anni sessanta si trasferisce a Tokyo, perché li potrà finalmente realizzarsi come fumettista. Nella capitale che si sta trasformando in città efficiente e frenetica, le persone hanno gli occhi freddi e il cuore distante. Come i robot che qui saranno in grado di costruire.

Keiji vede suoi connazionali discriminare, evitare di avvicinarsi o sfiorare ciò che i sopravvissuti alle radiazioni hanno semplicemente toccato con le  loro mani.

Per fortuna esiste un mondo parallelo. Il mondo dei manga ha accolto bene Keiji, ma dopo la morte di sua madre una nuova e più potente bomba è pronta ad esplodere dentro di lui. Lei è morta di cancro e ancora una volta,a lui non resta altro che ritirare e custodire ciò che rimane di una persona tanto amata.

A quel punto la rabbia lo divora, si ribella al suo passato e al suo destino, alla storia e al suo paese che non serba memoria. Nasce cosi, e non per caso, Sotto la pioggia nera.

Il manga viene pubblicato dopo revisioni e censure perché negli anni di gioventù il fumettista Keiji scrive e disegna con rabbia, che però lo aiuta a distinguersi immediatamente. Ma negli anni settanta, quando Shûkan Shônen Jump – la rivista di manga più diffusa – lo reclama, Keiji è ormai maturo per distanziarsi dai suoi fantasmi e per riavvicinarsi in modo saggio e consapevole al suo giorno più doloroso.

Nel frattempo è diventato padre e i suoi figli sono nati sani e non deformi come è successo a tanti altri: grazie alla sua nuova vita e forse ad una nuova anima, realizza il suo capolavoro.

Nel 1972 nasce un altro figlio. Hadashi no Gen – in italiano tradotto Gen di Hiroshima  – è un manga rivolto ad un pubblico più maturo e viene pubblicato in dieci volumi. Presto si tramutano in Live action e film d’animazione, mentre negli anni ottanta e novanta Gen varca i confini nazionali. Qui in Italia il manga arriverà soltanto alla vigilia del Nuovo millennio, lo stesso che uomini come Keiji e il capitano Van Kirk hanno visto arrivare.

Nonostante il bagliore di luce visto dall’alto e la nuvola che ha coperto tutto giù in basso.

Oggi, dopo settant’anni, Keiji e Van Kirk non ci sono più. Le malattie e l’età li hanno portati altrove.

Eppure, c’è ancora una cupola a Hiroshima. Rappresenta la sommità di un vecchio edificio degli anni dieci rimasto miracolosamente in piedi, nonostante si trovasse a pochissima distanza dal luogo prescelto per l’impatto di Little Boy. Le lastre di bronzo che coprivano la cupola non ci sono più, polverizzate e finite chissà dove in seguito all’esplosione e allo spostamento d’aria.

Potremmo pensare che dell’edificio è rimasto soltanto lo scheletro: nulla di più ovvio in questo luogo, dove esattamente settant’anni fa migliaia di scheletri riempivano i sette fiumi della città.

Ma Keiji e il capitano Van Kirk, come tanti altri, hanno raccontato ciò che hanno visto. Perché sono andati avanti con la loro vita, fino all’ultimo giorno, consapevoli che è doveroso per chiunque.

Divisi dalla storia, oggi il bambino Keiji e il soldato Van Kirk non sarebbero nemici. La loro vita sarebbe sicuramente migliore e Keiji userebbe pala e secchiello per giocare.

https://www.youtube.com/watch?v=PvmAa7e4jBg
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