Anche i dinosauri hanno un’anima

Il mio amico F. mi propone Lezioni di Sogni, film del 2011 incentrato sulla figura del Prof. Koch. Per aprire e chiudere il discorso, basterebbe specificare che Koch è stato più di un insegnante. Figura chiave nella storia dello sport, pioniere del calcio in Germania, Konrad è l’uomo vissuto tra il 1846 e il 1911 che ha insegnato il football ai suoi studenti nel prestigioso istituto Martino Katharineum di Braunschweig, Bassa Sassonia. Prima che il pallone mettesse le ali e si dirigesse in tutte le direzioni, virando anche verso Nord, planando e atterrando anche su Amburgo.

Mi piace pensare che da quel momento, nel secolo in cui si giocava a calcio in camicia, inizia la vera storia dell’Hamburger Sport Verein. Il nome germanico non deve sembrarvi minaccioso: si tratta semplicemente della società sportiva dell’Amburgo.

La più antica squadra tedesca, che tra passato e presente si autoproclama – come a volersi rendere giustizia e onore – club dei dinosauri.

Il 1887 è indubbiamente una data suggestiva, più di tante date recenti. Probabilmente perché tornare un secolo indietro facilita la storia e permette di raccontare più cose. O forse perché ricordare che il calcio giocato va oltre l’iscrizione ai campionati federali e ufficiali, aiuta a rivivere lo sport come mitologia o leggenda.

La leggenda potrebbe suggerire l’immagine di un pallone con le ali; tuttavia, la mera cronaca è fatta per riportarci in basso, a luoghi e date precise che non lasciano scampo.

La cronaca accelera il corso degli eventi e dal 1887 l’orologio scatta in avanti di quasi un secolo. Agli inizi degli anni sessanta, Amburgo porta ancora segni delle tonnellate di bombe sganciate dall’aviazione anglo americana vent’anni prima. Non è comunque una città morta perché  proprio in quel periodo consacra  i Beatles portando loro fortuna: sulle sponde del fiume Elba che collega la città al Mare del Nord, i fantastici quattro di Liverpool si esibiscono e conquistano la gloria prima che altrove.

John, Paul, Ringo e George strimpellano note che accompagnano il loro battesimo, ma soprattutto la rinascita miracolosa di quella che un tempo fu centro nevralgico della Lega anseatica che univa i maggiori porti d’ Europa. Agli inizi degli anni sessanta, dicevo, la squadra di calcio di Amburgo disputa la prima partita di campionato della Bundesliga che prende ufficialmente il via il 24 agosto 1963. Non è difficile immaginare spalti popolati di tifosi che intravedono orizzonti di gloria e sognano traguardi da fiaba.

Nel caso specifico arrivano, talvolta anche a sorpresa, quasi a voler smentire le rigide certezze che la tradizione teutonica impone.  Molti trionfi vengono alzati al cielo tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta. In quel decennio il club dei dinosauri vanta tre vittorie in campionato, una Coppa delle Coppe, una Champions – bitte, una Coppa Campioni – conquistata nel 1983, con quel gol strabiliante di Felix Magath da fuori area.

A farne le spese, fu la Juventus guidata da Trapattoni con Dino Zoff in porta. A quell’epoca tra i bianconeri c’erano Gentile e Scirea a chiudere in difesa, Tardelli a battersi a centrocampo mentre le speranze in attacco venivano affidate ad un vero e proprio plotone d’esecuzione: Bettega, Rossi, Platini e Boniek. Nomi che indubbiamente conferiscono alla sconfitta bianconera un retrogusto ancora più amaro e ci consegnano, anche su YouTube, video d’annata sfumati.

Ma le sfumature color seppia tipiche del vintage, a mio avviso, con lo sport c’entrano poco. Lo sport vero conosce tinte vive ed è quindi lecito parlare di passione, di emozioni, di vita che vibra grazie alle percussioni dei passi trepidanti sugli spalti.

Succede anche al compassato, efficiente popolo tedesco.  Pubblico simile agli altri: si scalda quando tifa, propenso a fare passi in avanti e passi indietro a seconda dell’andamento dei propri beniamini in campo. Il tempo nello sport non riesce proprio a placare gli animi, a uccidere speranze, ad annientare orizzonti di gloria. Pure le delusioni restano cocenti e a distanza di anni restano sempre di sogni infranti e rimpianti.

La regola si ripete anche ad Amburgo, il 12 maggio 2018. Hamburg steigt ab: titolano, laconici, ma implacabili, i giornali teutonici. L’Amburgo retrocede. Lo ha deciso il tempo, in tanti modi diversi. Sono state le ultime stagioni a lasciarlo presagire, conclusesi sempre con salvezze rimediate negli ultimi giorni, o anche negli ultimi minuti. Questo campionato non è stato diverso e a testimoniarlo sono i tre allenatori che si sono alternati sulla panchina.

Certamente, quattro vittorie nelle ultime sei gare per una squadra che realizza trentuno punti in campionato possono essere scambiate per l’ennesima grazia concessa all’HSV. Invece, dopo più di cinquant’anni, l’Amburgo è retrocesso per la prima volta nella sua storia.

Il prossimo anno, l’unica squadra tedesca ad aver partecipato a tutti i campionati di massima serie, giocherà nella Zweite Liga, la seconda divisione.

Lo ha sancito una giornata di campionato, nonostante la vittoria finale di 2-1 contro il Borussia Mönchengladbach. In seguito l’arbitro ha dovuto attendere, prima del fischio finale perché nel frattempo il terreno di gioco dello storico stadio cittadino, il Volksparkstadion diventava luogo di incontro tra razzi bengala e polizia a cavallo. Quest’ultima, sopraggiunta per interrompere le ira funeste scatenate da una retrocessione questa volta arrivata veramente.

Ma c’è un simbolo in tutta questa faccenda che al di qua delle Alpi molti non hanno considerato fino a pochi giorni fa. Fino a sabato scorso, quanto il tempo ad Amburgo si è effettivamente fermato.

C’è – o piuttosto c’era – un orologio che era anche motivo di vanto. Un quadrante digitale montato alcuni anni fa all’interno del Volksparkstadion, per ricordare a tutti che la squadra di casa giocava in Bundesliga dal giorno uno e dall’anno zero del massimo campionato di calcio made in Germany.

Tradotti in cifre, 54 anni, 260 giorni, 22 ore, 28 minuti e 21 secondi.  A sancirli, un ticchettio ossessivo e inudibile,  rivelatosi alla stregua di un timer tragicomico e di una clessidra funesta. Un suono che prima di arrestarsi, è sicuramente rimbombato come la più drammatica e fatale sinfonia.

Quando è giunto il triplice fischio dell’ arbitro, il silenzio è stato più assordante di un’ipotetica esplosione.

Finisce così e per sempre un lungo capitolo di una prestigiosa squadra di calcio. Antica, leggendaria, ritenuta al sicuro dal rischio di estinzioni improvvise.

Invece sul club dei dinosauri è piombato quel meteorite rimasto a lungo sospeso nel cielo plumbeo di una città tra le più vivibili al mondo, ma con una squadra in lenta agonia e negli ultimi anni attaccata all’ossigeno.

Si è spento l’orologio, sono state ammainate le bandiere, sono spuntate le inevitabili lacrime. Se volessi consolare i tifosi di quella squadra potrei dir loro che tutto quello che sarà, nel bene e nel male, verrà comunque vissuto da chi ama il calcio. Tutto quello che è stato non tornerà, ma può essere raccontato. Del resto, è accaduto anche ai – veri – dinosauri.
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