Il calendario di Paola

Ieri pomeriggio ho posato gli occhi sul calendario. E’ stato un caso, anche perché quella di ieri mi sembrava l’ennesima giornata qualunque, quella che ti impegna nel lavoro che ti garantisce pane e burro. Ho preso in prestito – e tradotto – appositamente un detto popolare nei paesi anglofoni: non c’è niente di internazionale, pardon International, nella mia scelta. Il lavoro che ho in mente è duro ovunque, ma quando è onesto rende tutti liberi. Felici, quando traduce in realtà ciò che hai sempre sognato.

Torniamo in Italia, anzi scendiamo in Puglia: è il tacco sdrucito di un paese, il nostro, dove spuntano  bubboni ovunque. Anche se la peste – ci dicono – è stata debellata.

Ci sono stati e purtroppo continuano ad esserci terremoti in tutto il mondo, ma al di qua delle Alpi non è necessario invocare un sisma o maledire un qualsivoglia cataclisma per vedere materializzarsi macerie che non vengono rimosse, come quelle che strozzano ancora luoghi dove ci sono stati veri terremoti.

I quali spezzano all’improvviso la vita di chi fino a un attimo prima faceva ciò che ha sempre fatto. E’ successo anche a Paola Clemente.

Nessuno scenario apocalittico: sotto il sole, a pochi passi da distese d’uva, masserie a cinque stelle e discoteche.

Nulla è poetico, tutto è invece profetico in quei pochi passi che fanno la differenza: Paola, moglie e madre di tre figli, dona al mondo il suo ultimo respiro mentre si trova al lavoro, sotto un tendone in aperta campagna. Fuori la colonnina di mercurio è inchiodata sui quaranta gradi, in un’estate straordinariamente calda, in un giorno qualunque per tantissimi altri.

Paola è lontana da casa; del resto il suo ultimo giorno di vita è iniziato come tutti gli altri. Sveglia alle due del mattino, partenza in autobus un’ora dopo. Viaggio di tre ore e arrivo sul posto di lavoro.

Nel suo ultimo giorno questa madre di tre figli tiene braccia e collo in su, come ha sempre fatto. Soffre di cervicale, ma questo non interessa a nessuno, anche perché Paola soffre in silenzio e le sue colleghe intorno fanno altrettanto. Forse anche loro adottano rimedi simili a quelli che adotta una donna di quarantanove anni,  rincasando dopo un viaggio estenuante: un paio di iniezioni e il giorno dopo tutto sembra tornare a posto.

Quantomeno deve, perché c’è da occuparsi degli acini d’uva: Paola e le sue compagne hanno il compito di rimuovere quelli più piccoli per lasciar spazio ai chicchi più grandi.

In questo modo il grappolo sarà più bello, dicono, pronto ad essere consumato sulle nostre tavole. Invitante e succulento, come le cene preparate da Paola alla fine di una giornata interminabile, sette giorni su sette.

“Un’ottima cuoca”…Già, Stefano non ha dubbi. Suo marito è stato a tavola, con lei, anche la sera prima.

Cerco di immaginare quel 12 luglio, dopo il tramonto. Io stavo ultimando i preparativi per il mio viaggio all’ estero, Paola e suo marito cenavano e gustavano l’ottimo cibo a caccia di aria fresca, non più arroventata dal sole pugliese.

Un’ultima cena apparentemente come tutte le altre, sacra per chi è rimasto: a Stefano e i suoi tre figli mancheranno quelle serate. Lo dice lui stesso, con rimpianto, ma soprattutto con amore.

Non c’è bisogno di ascoltarlo, basta questo ricordo a fissare in mente l’immagine di una coppia solida, che di questi tempi fa notizia. Una coppia che acquista casa e si sposa nel 1987: per mantenere fede all’impegno e non solo all’amore per marito e figli, Paola accetta di lavorare per due euro l’ora nonostante l’azienda che l’ha assunta ribadisca che il contratto è regolare, mediato da agenzia interinale.

Paola però muore e nessuno sembra accorgersene e va via nel silenzio, in un’indifferenza che è soltanto finta perché è già diventata omertà. Nessuno sembra aver visto niente. Intanto, suo marito riceve una telefonata da Andria e soltanto dopo mezz’ora ottiene la verità.

Capisce, in preda al dolore, che nessuno può più salvare sua moglie.

E’ andata via, per sempre: per questo Stefano parte immediatamente, ma la sua ricerca inizia proprio quando crede di essere arrivato a destinazione. Il paradosso inumano e assurdo è consumato: lui finisce per vagabondare, cieco e solo nel suo dolore, di ospedale in ospedale finché non giunge alla verità che arriva soltanto grazie all’ennesima e disperata telefonata. Qualcuno si degna di rivelare la verità, in questa storia unica e tragica come tante altre. Una vicenda senza verità e piena di silenzi e bugie. Che coprono volti e colpevoli e rendono assordante il silenzio.

Quanto il silenzio nella camera mortuaria nel cimitero di Andria: Paola è lì, in una cella frigorifero mentre fuori il caldo che l’ha uccisa è ancora asfissiante.

..E’autunno, in una giornata grigia e piuttosto fredda spunta fuori un calendario. E’diverso da quello che ho visto ieri, nell’ufficio confortevole situato ai piani alti di un edificio. Spunta sui siti di due testate giornalistiche importanti, proprio perché questo calendario non è uguale agli altri.

Forse Paola non aveva il tempo di scrivere un diario, non come celebri diariste che la storia e il destino hanno reso celebri.

Tuttavia ha avuto il tempo di stringere il pugno e afferrare una penna per scrivere orari, dati, cifre. I numeri sono importanti, ma non sono tutti uguali: in questa storia sono tristi, irritano persino. Però servono, anzi saranno utili: in quel pugno stretto e caparbio, quella penna è diventata un’arma.

Allunga l’eco di una voce che non si è spenta, tornata a smentire ciò che sostengono altri.

“Un contratto regolare, mediato da un’agenzia interinale. Una busta paga bollata, il cui ammontare corrisponde alla paga prevista per prestazioni di questo genere” Questo dicono gli altri…La verità di Paola è su quel calendario, che oggi io fisso attraverso lo schermo di un computer. Un monito e un consiglio per le migliaia di donne schiave, un prezioso alleato per suo marito e i legali impegnati in questa causa.

Il calendario di Paola è diverso dal mio: ricorda che non tutti i giorni sono uguali. Il 20 luglio Mohamed, sudanese, muore mentre raccoglie i pomodori in provincia di Taranto. Sua moglie Marian non sa cosa sia successo, ma è consapevole che tutto sarà diverso. Non è venuta qui su un barcone come lui, arrivato nel 2006 e successivamente classificato come rifugiato politico.

Ma se Mohamed aveva speranze, tradite da false promesse e da una terra che resta spesso una promessa mancata quando dominano sporcizia e disonestà, Marian non ne ha più.

Riportando suo marito nella sua terra, sa che nei giorni a venire la sua esistenza resterà vuota e lei non ha la minima idea di cosa possa accadere.

Stefano e Marian sono rimasti senza coloro che hanno amato. Divisi da tutto, apparentemente, uniti dal lavoro che è tornato ad essere schiavitù. Proprio quella che la letteratura e il cinema ci hanno raccontato, sublimato grazie a piantagioni di cotone lontane e risaie che sembravano appartenere al passato.

Non c’è discriminazione tra passato e presente, luoghi o razze.

La giustizia e la verità potrebbero avere sfumature simili a quelle di un gigantesco arcobaleno. Ma in realtà quel colore muta ogni volta, a tratti diventa bianco e nero.

Il colore della giustizia purtroppo resta incerto. Già, non è una questione di colore.
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