Yulia non abita più qui

Saroo è nato nel 1981, proprio come me. Avevamo cinque anni, nel 1986. In quel periodo la mia vita era già scandita dalle stagioni e dalle ore destinate ad attività ben precise. C’era il tempo per frequentare la scuola materna, c’erano le stagioni nelle quali era meglio giocare dentro casa e arrivavano poi i momenti spensierati da passare all’esterno. Saroo ne era all’oscuro, nella sua città nel cuore dell’India, continuando a trascorrere intere giornate all’aperto, fuori dalla porta di casa che si affaccia su un paese grande come un continente. Dove – inevitabilmente – s’intrecciano milioni di strade polverose e si incrociano un miliardo di destini.

Non distante da quelle strade si distende una lunga, lunghissima ferrovia, che lo attira come una calamita. Al punto che un giorno – ed è sempre il 1986 – Saroo prende il treno e decide di seguire Guddu, il fratello più grande,  un quattordicenne che lavora nella località di Burnhanpur. Arrivati a destinazione, Saroo si addormenta su una panchina e svegliandosi, non trovando suo fratello, sale su un vagone parcheggiato nella stazione, mosso dalla convinzione che Guddu si trovi lì.

Saroo cade di nuovo vittima del sonno e al risveglio non troverà nessuno al suo fianco: sceso dal treno, si ritrova solo a Calcutta, città enorme, eterna come le sue contraddizioni, piena di voci che si rincorrono e tutte sorde ad un bambino di cinque anni che ripete ossessivamente un unico nome.

Guddu non risponde all’appello e in quella città gli altri, gli adulti – talvolta cattivi, spesso indifferenti – parlano il bengali, molto diverso dall’Hindi, l’unico idioma che Saroo conosce. I suoni che emettono sono suoni stonati, che non possono accordarsi con i mille dubbi che assillano un bambino lasciato solo. Domande e risposte non si incrociano, i binari restano separati. A Saroo rimarrà solo un’unica possibile via di uscita, una volta finito in un istituto: se vuole salvarsi dovrà andare lontano. In una terra chiamata Tasmania, dove ad attenderlo ci sono due nuovi genitori.

Improvvisamente è già arrivato il 1999 e siamo in una parte del mondo completamente diversa, dove le persone vestono in modo differente e si esprimono in una lingua che non mostra nessun cenno di parentela con quella che usava Saroo nella sua terra di origine.

Qui la gente ha i capelli biondi e gli occhi di colore chiaro. Il clima è freddo, il cielo è spesso cupo. Qui i fiumi scorrono d’estate, ma gelano d’inverno, i bagni rituali non sono concepiti. C’è però un treno in corsa anche da queste parti:  è in un giorno di venti anni fa che Viktor sale su quei vagoni insieme alla figlia Yulia, che ha solo quattro anni.

Su quel treno Yulia rimane sveglia. E’ invece suo padre, quello che dovrebbe tenere gli occhi aperti, a chiuderli perché vinto da un sonno breve che però si rivelerà fatale.

Quando il treno arriva nella cittadina di Asipovichy, a poco meno di cento chilometri da Minsk, capitale della Bielorussia e paese che ha gli stessi anni di sua figlia, Viktor non riesce più a trovare la sua Yulia. In preda alla disperazione, all’angoscia di chi è preda dei propri sensi di colpa, nei giorni e nelle settimane a venire lui e la moglie Lyudmila ripercorrono lo stesso tragitto decine o forse centinaia di volte.

Il treno è il loro carcere, e al tempo stesso sembra essere la loro unica salvezza: si travestono da investigatori, fanno domande, interrogano i passeggeri dei convogli per reperire informazioni che possano dar loro una speranza.

Ma Yulia resta introvabile e non fa ritorno a casa: uscita dalla porta della sua abitazione, non varcherà più la soglia nemmeno nei mesi successivi alla sua scomparsa .

Yulia ha quasi cinque anni, ma non abita più nella casa della sua famiglia che l’attende con ansia. Probabilmente sta vivendo quello che ha vissuto Saroo: nel cuore dell’infanzia e inaspettatamente soli, devono sopravvivere e dare il meglio di sé, come accade ai personaggi che a quell’età si incontrano nelle fiabe

Andare avanti è l’unica strada da percorrere, l’unica scelta possibile: Yulia viene adottata da una famiglia che abita nella città russa di Ryazan. Anche Saroo cresce insieme ai suoi genitori adottivi, prima che il passato torni a tormentarlo.

Saroo non si darà per vinto, e alla fine vincerà la sua caccia al tesoro e comprerà il biglietto di ritorno. La sua storia diventa un film, il suo volto sarà quello di Dev Patel, attore candidato all’oscar, il volto della madre verrà identificato dalle platee con quello celebre di Nicole Kidman.

Lion esce nel 2016 e mentre viene acclamato dalla critica e amato dal pubblico,  Viktor e Lyudmila sono ancora genitori orfani della propria figlia e devono sottoporsi alla macchina della verità.

Nel 2017 la polizia bielorussa intende fugare ogni dubbio e scoprire definitivamente se hanno mentito. Entrambi devono liberarsi dal sospetto di aver ucciso la propria figlia, in un paese – l’unico in Europa – dove reati simili sono ancora puniti con la morte.

Il dolore non basta, a tenerli prigionieri: c’è anche il sospetto, l’onta che si rivelerà fugace, ma non meno feroce. Scagionati completamente da quella terribile accusa, Viktor e Lyudimila si ritrovano come sempre: soli, in una casa che non è più quella di un tempo, lontana da treni che sfrecciano e ferrovie tentacolari, simili a fantasmi impossibili da evitare o scacciare.

Il calcolo degli anni è puntuale, il passo del tempo inesorabile. Viktor e Lyudmila non possono saperlo, ma forse lo sentono dentro: Yulia è effettivamente sopravvissuta, è cresciuta, è ancora viva. Ha studiato, ha un fidanzato. Yulia sta bene.

Ovviamente non si deve più aspettare il ritorno di una bambina: Yulia è diventata una giovane donna ed ha un fidanzato. Ilya è capitato nella sua vita e non ne uscirà più. Quando Yulia apre il suo cuore e gli rivela il suo passato, attraverso ricordi sbiaditi, ma che non sono mai svaniti, Ilya fa quello che ha fatto Saroo.

Il mondo è cambiato, la tecnologia è avanzata: Ilya usa il web per compiere il miracolo. Rintraccia la famiglia della donna che nel frattempo gli ha dato una figlia, Kristina.

A prescindere dalla latitudine, malgrado il passato diverso di ciascuno, c’è una sola strada che ti porta a casa. Anche Yulia prende l’unica strada possibile per tornare. Riabbraccia i genitori e il test del DNA si rivela solo una formalità legale, in grado di mettere la parola fine ad anni di dubbi e disperazione.

“Siamo identici, e questo basta”. Non è il finale, ma solo l’inizio: Yulia sceglie le parole più semplici perché tutte le altre le riserva ai suoi cari, alla famiglia ritrovata, così come a quella adottiva che le ha fornito il sostegno che serviva ad una bambina che per un po’ deve accontentarsi del tetto di un orfanotrofio distante mille chilometri dalla sua vera casa.

Ora, nel 2019, Yulia è madre ed è di sua figlia Kristina che deve occuparsi. Deve tenere gli occhi aperti, perché il viaggio non si è mai fermato e non si arresterà nemmeno adesso. Per lei, come per me o per tutti, è inutile contare i passi o le soste: la direzione è – e resta – una soltanto.
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