Vita che torna

Per una volta, vorrei che una notizia avesse finalmente un volto. Un volto di donna, di quella donna – se preferite chiamatela madre – che manda il figlio di dodici anni a timbrare il cartellino al posto suo. Per una volta, vorrei sapere se la protagonista sarà giudicata colpevole e, per una volta, vorrei avere la certezza che la pena, col tempo, si riveli una lezione indimenticabile.

Quella donna senza volto e senza nome è la dipendente di un noto ospedale, il più grande del Sud. Il Cardarelli di Napoli, eccellenza nazionale per il trattamento e la cura dei grandi ustionati, sorge su una collina da dove è possibile scorgere una città enorme, di quelle dai confini incerti. Con la facciata edificata negli anni trenta, e i suoi androni infiniti, il nosocomio cittadino è più di uno scenario:

è coprotagonista suo malgrado di uno scandalo che si ripete e che questa volta arricchisce le pagine dei giornali e le bacheche dei social network quando l’estate è in prossimità del giro di boa.

Ci sono una sessantina di dipendenti pubblici che si reputano furbi – sì, anche questa volta – al punto da abbandonare il posto di lavoro, ma solo dopo aver passato regolarmente il badge personale che invece ne attesta la presenza.  Questa volta nessuno se ne accorgerà – pensano e magari sogghignano – ma poi, puntualmente, arriva il solito epilogo.

Ci siamo abituati ai furbi del cartellino e da anni le immagini che li inchiodano al cospetto dell’opinione pubblica sono seguite da mugugni, teste che scuotono, mani che sbattono, visi che disapprovano. I commenti che seguono sono più naturali del finale di un’inchiesta giudiziaria che dura mesi o anni: “ bisogna sbatterli al muro, privarli del lavoro, spedirli nelle miniere..” – questo si pensa e questo si dice.

Ma poi all’onesto cosa resta, se non l’amarezza? Se non la massima sfiducia nel prossimo, considerando che in questo caso ci sono medici che abbandonano i pazienti e madri pronte a gettare alle ortiche l’esempio da dare.

Eppure lentamente mi convinco che questa volta ci è andata bene: capita che di fronte alla negligenza di chi dovrebbe curare il prossimo, arrivi subito dopo la notizia che ha tutto l’effetto di un antidoto. Perché a fungere da nemesi c’è un volto di donna, rassicurante e combattivo, animato da due occhi consapevoli. Occhi abituati a fissare senza timore o reverenza quelli degli altri.

Si chiama Maria. Maria Gariup ha una tenacia fuori dal comune, non figlia però di ambizioni personali cui siamo sempre più abituati e assuefatti. Maria vive lontana dalla grande città, è rimasta nella provincia dove lavora come contabile da oltre vent’anni. E’ sposata, è madre, ma i ruoli che definiscono la vita ordinaria di una donna normale finiscono qui: a lei non sarà mai concesso vivere una vita ordinaria, perché le viene detto che il figlio Alessio non potrà averla.: quando ha solo tre anni, gli viene diagnosticata una forma di autismo e questa sentenza non lascia scampo.

Sembra impensabile, qualcuno addirittura non ci crede, ma anche nel ventunesimo secolo ben avviato si disseppelliscono lettere scarlatte quando non c’è possibilità di appello.

A di autismo bolla per sempre l’esistenza di chi ne è affetto, ma non solo: quella A non è impressa sul petto di un singolo individuo, perché pian piano marca il destino e l’avvenire di chi vive al suo fianco ogni giorno.

Ce lo ricorda Maria e le basta un semplice aneddoto, quando in un’intervista aperta a tutti ricorda come, conclusi gli anni delle scuole medie, suo figlio rischiava di non poter proseguire i suoi studi a causa della mancanza di personale qualificato e formato a dovere, in grado di garantire un’adeguata assistenza nelle ore scolastiche negli Istituti superiori.

Cinque anni fa, per un attimo,  si sono spalancate quelle porte chiuse sempre a fatica. Oltre la soglia, Maria avvista lo spettro di un’esistenza da “sepolto vivo” e che sembra concretizzarsi nel momento più delicato. Vale a dire negli anni dell’adolescenza, quando tutto si appresta a diventare determinante per l’avvenire di ragazzi e ragazze che  scalpitano e tentano di conquistarsi autonomia ed indipendenza giorno dopo giorno.

Alessio rischia di essere inghiottito nel limbo e c’è il rischio che non ne esca più. Ecco perché Maria ricorda che a lei non è concesso vivere una vita tranquilla. Tuttavia, se questo non è possibile, attinge dal suo coraggio tutta la forza necessaria per far sì che quella vita, la loro,  diventi straordinaria. Maria dimostra che, in condizioni come la sua, si può andare oltre la mera sopravvivenza: rinuncia alla carriera, si licenzia, torna a scuola.

Diventa la compagna di banco del figlio, nuota tutti i giorni contro corrente, chiude gli occhi e trattiene il fiato quando sono gli altri a scoraggiarla: “gli altri” sono quelli che alzano la mano per parlare, che esprimono giudizi, che scuotono la testa e indicano la direzione che sembra più facile e che invece per lei resta inaccettabile.

Piuttosto che arrendersi, va avanti e preferisce tentare la scalata su una parete che sembra fatta di vetro: pian piano, alzandosi tutte le mattine, stringendo i denti, sostenendo esami dopo esami, crea i presupposti perché suo figlio abbia diritto ad avere il suo posto nel mondo e non finisca inghiottito nell’oblio.

L’incubo di Maria deve essere un incubo ricorrente, dove ad essere dominante è l’immagine del confine sottile che separa l’esserci dal non esserci, oltre il quale Alessio scomparirebbe alla vista degli altri.

Maria non va a caccia di popolarità o di miracoli. Lei vuole suolo che il figlio abbia l’occasione di vivere il più possibile quello che gli spetterebbe di diritto: le gite scolastiche, i compleanni, le feste d’istituto, il rapporto con i docenti  dentro e fuori dall’ aula, così come nei laboratori dell’Istituto Agrario di Cividale del Friuli.

Negli insegnanti trova comprensione, solidarietà, ma  nessun favoritismo e sarà questa la regola in tutti gli anni che madre e figlio trascorreranno insieme tra i banchi di scuola.

Quando penso alla vita di persone come Maria, mi vengono in mente giornate invernali, fredde e uggiose, di quelle che non passano mai perché, in fondo, non c’è traccia del giorno.

Penso a tutto questo quando mi viene in mente che una donna di cinquant’anni ha lasciato tutto per tornare sui libri, riaprendo il capitolo che credeva di aver letto e che a vent’anni sembrava chiuso per sempre. Oltre il vetro delle finestre di quell’ Istituto Agrario c’è però la vita, segnata dal passaggio delle stagioni testimone diretto della vita che torna nei campi:

Finiscono gli anni di scuola e l’esame di stato si avvicina. Maria è chiamata a dar prova anche lei, della sua maturità.

E’ una donna diversa ora, da quando aveva vent’anni, chiamata a dare risposte diverse. Si concretizza così quel sogno, di non essere sola al traguardo.

Lei e Alessio si diplomano con ottimi voti: il traguardo tagliato insieme le dà ragione e di nuovo, torna l’illusione che dopo ogni record, dopo ogni impresa tutto sia facile. Svanisce subito, perché scopri che è già tempo di una nuova scommessa: dopo l’esame di maturità appena sostenuto, Maria vuole aprire un’azienda agricola con il figlio. Questa piccola impresa, che definisce “tutta nostra” sembra il sequel di una storia che giustamente non ha ancora un finale. Ci saranno altri muri da scavalcare, altre porte chiuse. E poi altre attese, altri sguardi perplessi, altri gesti fintamente compassionevoli.

Ma come si può dubitare di Maria e della sua tenacia, della dignità con la quale continua a denunciare tutti i problemi che affliggono famiglie come la sua? La risposta è legata a qualcosa in più della speranza, perché esiste una forza umana che resta meravigliosamente incomprensibile.

Mentre scrivo, penso allo sguardo di Maria che per un momento si sofferma oltre il vetro delle finestre e che supera i corridoi e infine il cancello all’entrata. Il suo pensiero è capace di trasportarla di nuovo lì fuori, nel mondo dove la gente ride ancora, e che lei guarda sospesa, ansiosa che tutto vada per il meglio.

Maria la trovi per un attimo lì di fronte a te, l’istante dopo è accanto alla donna senza volto e senza nome, che ha invece la colpa di aver negato a se stessa e al figlio che esiste il nostro posto nel mondo.

Basta un battito di ciglia e vedi che Maria è andata via, perché in fondo è una di quelle persone che si congeda con discrezione e senza dire nulla: il tempo corre e lei – magari perché donna, magari perché madre – non ha nessuna intenzione di sprecarlo.
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