Veronica ha deciso di lottare

“Vuoi che mi fermi”? chiede Veronica al marito Graham, appena dopo aver subito il primo attentato alla sua vita. Dei proiettili hanno infranto una delle finestre della sua casa a nord di Dublino. A 35 anni Veronica Guerin, giornalista come poche, moglie e madre di un bambino di sei anni, sta mettendo le mani sul proprio destino. Deciderà di non fermarsi – non lo ha mai fatto – e di andare avanti con le sue inchieste, ignorando intimidazioni e minacce, guadagnandosi stima e riconoscimenti.

Veronica corre, da sempre. Negli anni di infanzia la piccola “Ronnie” scorrazza per le strade di Artane, sobborgo a nord della capitale irlandese dove vive con mamma Bernadette, papà Christopher e i quattro fratelli. Combatte già sul campo – da gioco – guadagnandosi un posto nelle squadre nazionali giovanili di basket e calcio. E’ una sportiva promettente quando si iscrive al prestigioso Trinity College. Con la laurea in tasca sembra destinata ad una brillante carriera come contabile, ma vira verso le pubbliche relazioni prima e verso il giornalismo poi.

Ronnie runs, libera come poche. Come l’idolo Eric Cantona, calciatore prodigio dell’amatissimo Manchester United e di cui custodisce gelosamente una foto scattata insieme pochi anni prima. E’ Indipendente come il Sunday Independent, il giornale cui sembra destinata da sempre e dove approda finalmente nel 1994. In due anni, l’ultima arrivata non si distingue come la prima della classe che vuole offuscare i colleghi o provocare la concorrenza. Per il suo editore è molto di più: è l’unica reporter in Irlanda in grado di fiutare e portare a termine un’inchiesta.

Ogni volta, l’inarrestabile Ronnie sembra adatta a percorrere una strada tutta in salita, fino a quando non decide di concentrare i suoi sforzi sul narcotraffico che piega l’Irlanda degli anni novanta, specie tra le classi operaie e tra i più giovani.

I suoi editoriali domenicali gettano una luce diversa, che intacca il verde dell’isola di smeraldo abituata a risplendere, e restituisce l’immagine di una terra dove la caccia ai folletti nei boschi e nelle campagne sembra tramontata per sempre.

Il 26 Giugno 1996 Veronica è a bordo della sua auto – una Opel Calibra rossa – e sta percorrendo la N7 che collega le città di Limerick e Dublino. Ad un certo punto, il semaforo diventa rosso e lei resta al volante, fremendo per rimettere il piede sull’acceleratore.

Per la prima e l’ultima volta nella sua vita, non ci sarà nessuna accelerazione. La sua corsa si ferma lì, su una strada cittadina ad alta velocità. Due uomini a bordo di una moto e col viso coperto la raggiungono. Un attimo dopo quello seduto dietro le spara, colpendola per ben sei volte”.

Sfidando la malavita organizzata, Veronica ha deciso di morire – direbbe qualcuno – parafrasando più o meno consapevolmente il titolo di un libro famoso. Nei giorni e nei mesi immediatamente successivi la cronaca rende note le identità di coloro che la reporter conosceva già da un pezzo, anche per mezzo di John Traynor, informatore privilegiato e criminale di rango. Sono cento cinquanta gli arresti e i mandati di cattura, visti i vari e rocamboleschi tentativi di fuga all’estero; tra tutti, spiccano quelli a carico di John Gilligan, nemico giurato della reporter e di tutti i seguaci alla sua corte in quella piccola cupola d’oltremanica. Charles Bowden, Brian Meehan, Peter Mitchell, Paul Ward, Patrick Holland diventano nomi famigliari agli irlandesi.

Il lavoro di Veronica inizia a dare i suoi frutti: gli spacciatori accusano il colpo, gli introiti del narcotraffico crollano del 15%. Si susseguono arresti, gli accusati diventano accusatori, Bowden diventa il primo pentito d’Irlanda.  Alla fine, come in un classico whodunit di Agatha Christie – drammaticamente vero e violento – resta da stabilire il nome dell’esecutore materiale.

E’ passato un quarto di secolo, ma a differenza dei romanzi gialli – dove giustizia viene fatta – la cronaca regala open ending e colpi di scena a ripetizione.  Patrick Holland – deceduto in prigione nel 2009 – è ufficialmente indicato come il killer a bordo della moto guidata da Brian Meehan. Accuse sempre respinte da entrambi, ancora rimandate al mittente da Meehan che ha avanzato richiesta di trasferimento, il cui esito è visto come possibile epilogo della condanna a suo carico.

26 giugno 2021, venticinque anni di J’accuse e J’accuse dopo, Graham Turley è nella sua abitazione a nord di Dublino. Qui ha cresciuto il figlio Cathal, proprio nella casa dove la moglie ha subito i primi attentati alla sua vita.

Dietro quelle finestre, dove non ci sono più vetri rotti, è andata avanti la loro quotidianità. Con tanto di sveglia alle sei del mattino, colazioni da preparare, pranzi da cucinare, corse verso la scuola e verso il lavoro. Con tanto di corse sulla costa nei weekend liberi, a bordo di una Harley comprata per consentire al figlio di vivere libero come sua madre.

Oggi Cathal gestisce un locale a Dubai e ammette che i suoi ricordi ci sono, ma restano vaghi. E’ un giovane uomo, forse consapevole che a volte la memoria va condivisa con altri – Hollywood compresa, con il film interpretato dall’attrice premio Oscar Cate Blanchett – e a volte no. Fatta eccezione per gli affetti più cari, in primis il padre Graham.

“Tu vuoi fermarti?” chiede Graham Turley alla moglie Veronica, senza ricevere mai una vera risposta. Sa che per lui e tutti gli irlandesi quel 26 giugno non si può cancellare, ma è altrettanto sicuro che tutti gli altri giorni non sono fatti per restare a guardare.

Per questo ha deciso di vivere al massimo la sua vita, “eternamente riconoscente per aver avuto al proprio fianco una grande donna e per tutte le grandi gioie che la vita regala”.
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