Un’onda per tutti

Tancredi non è come me: ha dodici anni, ha i capelli biondi, vive a Washington D.C. Tuttavia, la vita non smette mai di stupirti e ti invita a cogliere l’occasione per prendere esempio da chi, come lui, ha l’età che potrebbe avere mio figlio se a venticinque anni avessi deciso di metterne al mondo uno.

Tancredi non è come me, forse per un motivo ancora più semplice e al tempo stesso ancor più eclatante: a dodici anni, in procinto di fare il suo ingresso nell’ età puberale, è riuscito a salvare la vita di un uomo. Un uomo adulto trovatosi  in difficoltà perché colto dai crampi mentre nuotava.

Quel giorno Tancredi era a venti metri di distanza, perché spinto dall’amore per il surf. Quando i fischi del bagnino giungono fino a lui, decide di ignorare le onde virando il suo sguardo sul prossimo in difficoltà.

Raggiunto il suo vicino, Tancredi ha iniziato a nuotare, trascinando la sua tavola trasformatasi in ancora provvidenziale; tanto da raggiungere i guardaspiaggia nell’ultimo tratto prima di toccare la riva e portare a compimento la sua impresa.

Lì tra le onde, nello spazio che ama di più, Tancredi ha preso spunto da quella visione che può arrivare soltanto dal cuore: una visione a senso unico, quella che impedisce di contemplare alternative. Tancredi ha fatto ciò che in mare e nella vita fa la differenza: stringere un patto con se stessi, concentrarsi sulla propria forza più che sulle debolezze altrui, trovando infine l’energia necessaria per tendere quella mano che contribuisce a salvare qualcuno.

Sono anch’io di fronte al mare e stringo anch’ io una tavola da surf: apparentemente anche per me questo è un giorno qualsiasi di metà luglio.

Ma io non sono come Tancredi: non solo non salverò una vita, ma non ho mai preso lezioni di surf. Insomma, sto per sperimentare qualcosa che francamente non credo di aver mai immaginato e nemmeno sognato nel cuore della notte. Sin da subito tra il sottoscritto e il suo istruttore c’è già il feeling giusto, che va oltre la fiducia che mi ispira un professionista molto più giovane di me: prima di trascinarci nell’Oceano ascolto con attenzione consigli, manovre, norme di sicurezza essenziali per governare la mia tavola soft da 8 piedi.

Fisso i miei riferimenti: due case immobili sulla collina che si staglia su questo spot dal fondale sabbioso, un beach break come dicono loro.

Già, non sono ancora padrone di nulla: di numeri, parole, gesti che possono fare la differenza. So solo che due ore di un volo Ryan da Ciampino sono bastate per scaricarmi qui in spiaggia, non lontano da Santander, al cospetto del Mar Cantabrico che oggi è generoso.

A dispetto di quanto accade nel resto della Spagna, qui è il verde intenso ad accecarti più del sole intenso: al riparo da raggi fastidiosi ho il tempo di chiedermi cosa c’entro con questo posto.

Avere quasi quarant’anni insegna ad ottimizzare i tempi per fare domande più dirette e trovare risposte immediate. Succede quando ormai il laccetto – pardon leash – è già stretto intorno alla mia caviglia. E’ il momento supremo, l’istante che precede un nuovo battesimo: sta per ripetersi un rito con acqua più fredda e salata, quando sul mio viso è già spuntato qualche tratto ingovernabile di barba bianca.

Oggi è muy buenodice Romàn  – per la vostra prima lezione” Questo specchio d’acqua che bagna la costa del Nord della Spagna non è audace come il mare che si scaglia contro le coste galiziane più ad ovest. Mi rincuora saperlo, ma non sono a caccia di consolazioni: sono venuto qui per le emozioni.

So benissimo che devo andarle a cercare, ma questa volta non posso permettermi di farmi travolgere: a quarant’anni, in questa situazione, è essenziale che io alzi la testa, avanzi a schiena dritta. Dovrò aprire il mio cuore al momento opportuno. In altre parole, quando le sensazioni saranno forti.

In un secondo momento – sono passati secondi, o forse minuti – mi ripeto che il mare non è mio nemico. Non lo è stato quando ho imparato a nuotare, non ha fatto il cattivo nemmeno quando l’ho visto risvegliarsi di colpo e cambiare umore, talvolta trascinandomi altrove in tratti di costa più sicuri e riparati.

Il mare è semplicemente lo sconosciuto che bussando alla tua porta non ama parlare e rivelare molto di sé: non è scortesia, il suo è un invito tacito ad un dialogo silenzioso e profondo perché tra i due sei tu quello che deve fermarsi, studiare,  capire.

Quando intuisce che sei disposto ad amarlo, si lascia persino dominare, a patto che non ci siano imbrogli e tu non ti senta più onnipotente di lui.

In questo primo giorno si rinnova un patto stabilito da tempo: alla mia prima prova da aspirante surfista, l’oceano non farà scherzi se saprò stabilire una connessione, comunicando con un filo diretto e possibilmente onesto con lui.

Quando l’onda arriverà, sarà necessario rispettare le tre mosse che mi sono state mostrate a riva , calcolando i tempi giusti.

Quando Romàn mi dice di remare, nuoto al meglio e quando l’onda arriva, vado arriba: scatto in piedi tenendo ancora a mente tutti i comandamenti necessari per non cadere subito in acqua. Nella frazione di secondo che segue devo ricordarmi di flettere le gambe, migliorare la posizione del corpo, direzionare le braccia per rimanere in equilibrio. Io sono un goofy, il mio piede destro è avanti mentre il piede sinistro resta ancorato a poppa: ma è proibito guardarli, perché gli occhi vanno puntati in avanti.

La mia muta non è una corazza, le mie mani restano nude come quando le ho usate per stendere uno strato di paraffina sul deck. Non potrebbe essere diversamente perché qui non siamo sul ring: qui devi rispettare chi ha la priorità e buttare un occhio di riguardo ai local, ai surfisti che surfano abitualmente in questo spot.

Eppure, il tempo passa e io sto prendendo consapevolezza che il mare mi sta facendo andare avanti a vele spiegate. E’ sotto di me, lusinga la mia autostima, eccita il mio entusiasmo, solletica i ricordi del bambino di cinque anni che voleva volare. Non me lo so spiegare perché in fondo, io, al mio primo giorno, non ho spiccato il volo, non sto cavalcando un’onda alta due metri, non sono nemmeno entrato in una blue o green room, dove i surfisti condividono i loro segreti o ascoltano il cuore battere e cavalcare.

Posso però vederle più da vicino, quelle camere d’acqua dove le pareti sono a tinta blu o verde, immortalate in tonnellate di film e documentari che mostrano il surfista apparire e sparire in un tubo destinato a chiudersi prima o poi.

Quello che provo è frutto del momento, frutto dell’attesa dei giorni a seguire, istanti in cui l’oceano mi farà provare di tutto, mettendomi alla prova, rimproverandomi, incoraggiandomi, frullandomi, schiaffeggiandomi con onde meno glassy e più nodose. In quei momenti lì, in cui in acqua mancano riflessi di luce poetici, non è il momento di contemplare e non è nemmeno il momento di esitare.

Sono io l’ospite, sono io ad aver deciso di entrare: dico all’oceano che gli andrò incontro come potrò, tentando magari un grab rail. Mi farò rispettare non lasciandomi scaraventare e nemmeno vincere, mostrando che anche io ho muscoli e cervello per arrivare alla line up.

E’ lì, in quello spazio meno tumultuoso e più al largo, che posso finalmente sedermi sulla tavola, guardare i veri surfisti che attendono un’onda. Trovare un secondo per ammirare il paesaggio verde circondato da montagne, nell’unico angolo di Spagna dove a dominare sono stati i celti invece che gli Arabi.

Improvvisamente, mi sembra di aver ricevuto una ricompensa: ovunque mi giri, a migliaia di chilometri da casa, la natura mi fa sentire figlio e non figliastro.

Riordino le idee per trovare finalmente le parole giuste per dare un nome a ciò che sento. Le labbra sono piene di sale e gli occhi bruciano ancora, eppure vedo ed assaporo ciò che ho imparato a ripetermi, da quando chi mi ha messo al mondo ha lasciato la mia mano permettendomi di affrontare la vita da solo.

E’ accaduto a me, è successo a ragazzi come Tancredi di capire che in mare, come nella vita, c’è un’onda per tutti: l’onda buona che prima o poi ognuno di noi sarà in grado di cavalcare.
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