Una vita difficile (e) meravigliosa

Ho rincorso George Bailey a lungo e alla fine il nostro appuntamento – sul divano – resta fissato per un sabato sera di dicembre. E’ forse il momento in cui ho più bisogno di lui, perché in questa serata fredda e nebbiosa, un cinema homemade che proietta film in bianco e nero mi sembra il modo migliore per colorare l’ultimo weekend prenatalizio.

Vorrei viaggiare: nel 2020 i viaggi mi sono mancati più di tutto. Soprattutto perché sotto l’epidermide qualcosa si infiamma ogni volta che piomba dall’alto il consiglio a non muoversi.

Non mi resta che un viaggio nel tempo, visto che lo spazio non mi concede alternative. L’opzione on demand assolve uno scopo duplice, perché oltre ad una “fuga” attraverso i decenni, mi concede la possibilità di scegliere in quale epoca ( di celluloide ) è giusto fermarsi.

Scavalco agevolmente i duemila, resisto ai Novanta e agli Ottanta, che mi tentano a colpi di Gremlins, Kevin Mc Allister o Marty Mc Fly.

Quando mi imbatto nella locandina di un classico anni quaranta sono ancora più determinato, rincuorato non solo da un titolo importante (impegnativo, quasi irripetibile),  ma dalla stessa immagine che ne cattura l’anima

“La vita è meravigliosa” dice tutto, non permette sconfinamenti, al punto che ogni immagine troppo glam o eccessivamente drammatica vanificherebbe tutto.

Invece, per fortuna, il regista Frank Capra sa che ci sono solo due attori al mondo che possono rendere il suo film immortale.

Più che tenebroso, James Stewart è un divo altissimo dal volto rassicurante, mentre la protagonista femminile Donna Reed ha già la caratura di una vera attrice, una di quelle che non ha bisogno di ricorrere al fascino della femme fatale.

Lo ammetto, ho sempre sospettato che esistono film predestinati ad essere diretti da un determinato regista e interpretati da un determinato attore, ma quello che due ore di questa pellicola mostrano è, soprattutto, la sovrapposizione tra attore e personaggio.

L’arte imita la vita e viceversa, non c’è nessuna incoerenza, perché in questo caso più unico che raro sono i fatti – tanto cari ai materialisti – a dimostrarlo. Il personaggio George Bailey nasce e cresce a Bedford Falls, l’attore James Stewart muove i primi passi a Indiana, Pennsylvania.

Bedford falls è a tutti gli effetti una creatura di Hollywood e proprio per questo è la perfetta reincarnazione della cittadina americana ordinaria e rassicurante. Dunque è facilissimo sovrapporre la località immaginata – appunto, Bedford Falls – ad una autentica. Come Indiana,  tredicimila anime, “capitale americana dell’albero di Natale”,  o tante altre città statunitensi che grazie al cinema sono diventate familiari persino a chi non è mai andato oltreoceano.

All’inizio del film,  George è un ragazzino che pattina sul ghiaccio e lavora in un drugstore – uno di quelli dove al bancone si servono gelati e sul retro si dispensano farmaci – mentre da adolescente James “Jimmy” Stewart aiuta il padre dietro il bancone del magazzino/ferramenta di famiglia dove è possibile trovare di tutto.

La famiglia e la città di origine sono due pilastri sui quali si reggono le loro vite, e condizioneranno inevitabilmente il loro percorso.

Intanto, George ha la stessa fortuna di James: entrambi crescono in un ambiente familiare accogliente, la loro casa in legno ha il classico vialetto e il giardino. Soprattutto, entrambi hanno come esempio un padre da prendere a modello. Quello di James si chiama Alexander ed è un ex soldato che si è distinto nella Prima guerra mondiale, quello di George si chiama Peter, un idealista che da venticinque anni aiuta i più poveri a costruirsi una casa grazie alla cooperativa fondata con il fratello.

Malgrado crescano amati e spensierati, sia George che James vogliono andare via. Il primo è un sognatore ad occhi aperti che si ridesta solo quando sente il fischio del treno dalla stazione più vicina, il secondo vorrebbe lavorare nell’aeronautica e recitare, piuttosto che rilevare l’attività di famiglia.

Entrambi giovani, entrambi dreamers, com’è lecito nell’America anni venti, unico posto al mondo dove sembra effettivamente possibile. Di fonte al tentativo di fuga dal villaggio, gli esiti sono però diversi e qui inizia lo sdoppiamento: James va a New York, dove muove i primi passi sul palcoscenico, mentre George Bailey è costretto a restare, perché l’amatissimo padre muore proprio mentre lui sta corteggiando la donna della sua vita al chiaro di luna.

L’incantesimo si spezza e i sogni di George sembrano tramontare ben prima dell’alba. A questo punto,  pur sentendosi incastrato nell’ufficio di famiglia che concede mutui nei difficili anni della depressione, la straordinaria avventura di George Bailey ricomincia, sostenuto dall’amata Mary, che ha accettato di sposarlo.

Tiene testa al cinico e ricco uomo d’affari Henry Potter – già, nei cinema in bianco e nero i cattivi potevano ancora chiamarsi così – non cedendo mai alle sue lusinghe e alle sue minacce, dando prova a tutti che c’è sempre un ideale cui aggrapparsi.

George è un idealista che si adopera concretamente per gli altri, e coerentemente con la sua scelta di schierarsi apertamente contro i potenti, mette in discussione tutto se stesso, incurante di tutti i rischi e di tutte le conseguenze del caso.

Tanto che il potentissimo Potter –  più avaro di Scrooge, più spietato di Grinch – prima ordisce una vendetta spietata ai suoi danni e poi respinge le sue richieste di aiuto con una sentenza inappellabile

“ Vali più da morto, che da vivo”

Bastano un paio di ore e tutte le certezze di George, che ha sacrificato i suoi sogni per amore degli altri, crollano. Convinto che non vi sia alcuna soluzione al suo dramma, tutto il coraggio dimostrato nell’arco di un’intera vita – ha salvato il fratello da morte certa, impedito ad amici di commettere errori fatali – non gli basta più.

George Bailey diventa il simbolo di tutti gli uomini che almeno una volta hanno vagato senza una meta, al punto da mettere in discussione il senso della loro presenza a questo mondo, condannandosi con parole che non potrebbero essere più spietate: “Vorrei non essere mai nato”

I suoi occhi trattengono un senso di smarrimento all’apparenza intimo, personale, ma che nella realtà, semplicemente, non lo è. Nel momento in cui  raggiunge l’apice della disperazione,  George Bailey torna ad essere James Stewart e James Stewart torna ad essere George Bailey. Al punto che faccio fatica a trovare un personaggio letterario o cinematografico immaginario più reale di lui.

Stewart vanti tanti successi e un premio Oscar – regalato al padre ed esposto nel suo negozio con orgoglio – ma sul set si sente ancora un reduce stremato da anni difficili, e che sono anni di guerra.

Determinato a tutti i costi a tener fede al suo principio, secondo cui “la coscienza di un paese è più grande di tutti gli Studios di Hollywood e della propria carriera”, cinque anni prima James lascia il mondo dorato di Hollywood per arruolarsi come tanti altri giovani uomini come lui.

E’ il primo divo che si arruola nell’aeronautica, il primo che investe soldi per addestrare piloti, il primo che sfida apertamente sia i vertici di Hollywood che quelli militari della US Army Air Corps, decisi a impedirgli di volare sui B-24 diretti in Germania. Il suo nome è importante e “scomodo”: troppo rischioso esporlo  non solo al fuoco nemico, ma anche all’attenzione dell’opinione pubblica americana che deve ancora abituarsi ad un’altra guerra e, quindi, all’idea di tante vittime da sacrificare.

I suoi capi, nel loro mondo ovattato, sottovalutano la realtà: per Stewart onore e coscienza hanno un peso infinitamente maggiore rispetto ai titoli sui giornali o ai titoli di coda di una pellicola. Nel corso degli anni, lontano da Hollywood e a differenza di illustri colleghi rimasti sul set, Jimmy Stewart partecipa a venti missioni ad alto rischio. Distinguendosi sempre, viene insignito di decorazioni importanti, non ultima la croce di guerra.

Tuttavia, il ritorno a casa è devastante: malgrado i sorrisi nelle foto che lo ritraggono al rientro nella città di origine, Stewart è vittima del disturbo post traumatico da stress – all’epoca non capito – che colpisce i reduci di guerra disorientandoli e deprimendoli, fino a che diventano incapaci di riprendere in mano le loro vite.

Nel 1946, nell’anno più buio della sua vita e in preda a incubi ricorrenti, riceve una proposta dall’amico regista Frank Capra, cosciente che nessun altro potrà mai essere George Bailey e prestare il volto ad un uomo che, in mezzo a tanti ideali, ha nel frattempo dimenticato che “la vita è meravigliosa”

Nella famosa scelta sul ponte, in quella Vigilia di Natale sotto una forte nevicata, George e James sono tornati ad essere un’unica persona. Dilaniati da incubi e dai loro fallimenti, entrambi incapaci di andare avanti, si vedono ormai proiettati come non mai sul fondo di un fiume gonfio e ghiacciato, prima che un evento del tutto inaspettato – e miracoloso – si compia.

Superata la notte, James Stewart ritroverà finalmente la sua carriera, interpretando film famosissimi, nobilitando il lavoro di registi leggendari come Hitchcock, Mann, e Billy Wilder. Ritroverà gli applausi e tanto altro, ma a modo suo, ossia ribellandosi e sganciandosi dai potentissimi studios. Grazie a scelte difficili e azzardate, si riappropria della propria indipendenza, tracciando la via per tanti altri colleghi, chiudendo definitivamente un’epoca.

Nel frattempo, sposa la donna della sua vita e le rimarrà accanto fino alla fine, ancora una volta dimostrando che si può restare fedeli per sempre ad una promessa.

Si potrebbe concludere dicendo che questa è la storia di un attore che dà vita ad un personaggio e di un personaggio che riporta alla vita il suo interprete. Invece è più giusto soffermarsi su un’immagine: George Bailey che sorride con la sua famiglia, in una casa affollata di amici pronti ad aiutarlo alla vigilia di Natale. Prima che giunga il tintinnio di una campanella sull’albero, preludio ad un epilogo che custodisce parole che solo un angelo custode – che finalmente ha ottenuto le ali – può dire:

“La vita di un uomo è legata a tante altre vite. E quando quest’uomo non esiste, lascia un vuoto”.

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