Un uomo a bordo campo

Ho gli occhi fissi su Äpplarö. L’etichetta dice che questa panca assicura la massima comodità, grazie allo schienale curvato che garantisce una seduta confortevole. Dall’Ikea vicino casa a Jan “Janne” Andersson il salto è breve quanto inevitabile, perché è lui lo svedese che dovrebbe star seduto su una panchina e invece seduto non rimane. Äpplarö non è la panchina dove siede il ct della Svezia, alias Mister impresa: condividono semplicemente la nazionalità.

 

Oggi l’associazione è inevitabile, poi si anestetizzerà nel mio cervello per mesi, fino al 14 giugno 2018 quando inizieranno i mondiali di calcio e la squadra del mio paese non entrerà in nessuno degli stadi di Russia, paese ospitante.

Certo che novanta minuti fanno davvero la differenza e cambiano la percezione delle cose: fino a ieri tutti hanno parlato allo stesso modo della Svezia, delineandone l’immagine di paese libero e solidale, dove democrazia e tolleranza la fanno da padrone. Tutti – ma proprio tutti – senza riserve e senza eccezioni l’hanno dipinto come il paradiso. E un secondo dopo come la residenza prediletta di aspiranti suicidi.

Oggi l’immagine della Svezia che si ingrandisce e rimpicciolisce a seconda dei casi e del paradosso, si sbriciola di fronte al risultato di questi novanta minuti, maledetti novanta minuti scattati nel cronometro di un lunedì di novembre.

Magari si tratta davvero di un finto Paradiso: la Svezia ha spedito la nazionale italiana di calcio dritta all’Inferno. Senza scomodare Alighieri, nostro patrimonio, penso che la parola Girone diventi la più appropriata tra tutte quelle dette o scritte. Girone comincia con la lettera G nella lingua di Dante, ma ai tifosi più attenti la lettera G ricorda quel girone di qualificazione che ti ha visto arrivare secondo, alle spalle della Spagna favorita, ma protagonista meno scontata rispetto al passato.

Arrivi secondo nel tuo raggruppamento e affronti quella squadra che in un altro, marchiato dalla lettera A, rosicchia punto su punto ai danni della favorita Olanda, squadra numero 5 nel ranking mondiale al momento  del sorteggio.

Nella Svezia di oggi aleggia il fantasma dell’assente Ibra, ma il pragmatismo scandinavo emerge sempre ed è capace di sconfiggere anche i sogni e le magie di un campione. Mai domo, mai sconfitto dalla creatività e dalla brillante illogicità di noi latini, lo spirito pratico di Stoccolma, Uppsala, Goteborg e dintorni riemerge sempre. Malgrado manchino Ibra, Nordahl e Larsson e più che le stelle, in campo abbondino fulgide meteore.

Anche gli svedesi sognano – noi li batteremo sempre – ma dopo aver sgranato gli occhi blu e scrollato i bei capelli biondi, di fronte alla bandiera con croce gialla su sfondo blu, loro rinsaviscono. Capiscono che il ritorno delle stelle di un tempo resta un bel sogno sotto quel cielo plumbeo, tipicamente nordico, dove la cortina di nubi è davvero impenetrabile.

Ibra non torna e non tornerà. Il tempo corre, ma forse nel profondo Nord è più corretto pensare che non c’è tempo da perdere: se non è possibile materializzare i campioni di un passato che ha regalato finali e soddisfazioni, bisogna puntare sulla panchina più scomoda, distante anni luce dalle comode panche targate Ikea sotto i miei occhi.

Soltanto un anno prima, nel 2015, sulla panchina dell’IFK Norrköping siede Janne Andersson. Ha poco più di cinquant’anni, è uno sconosciuto dal volto comune. Fisico magro e asciutto, ex calciatore dilettante, nessuna stella sul petto.  Ma la mancata gloria del passato non impedisce a chi si è cimentato con il pallone e con la pallamano di vincere l’Allsvenskan.

Detto tra noi, si tratta del trionfo al campionato svedese. Il suo team riassapora il trionfo dopo ben ventisei anni di assoluto digiuno.

A te che segui la Premier, la Liga o la Bundesliga, il titolo Allsvenkskan fa un pò sorridere, ma Jan “Janne” Andersson incassa e sorride di più perché grazie a quel successo arriva in nazionale.

In quello stesso anno, la Svezia tocca i minimi storici in ambito internazionale, raggiungendo la posizione quarantacinque nel ranking mondiale. Per risalire dal  baratro inutile puntare gli occhi sul terreno da gioco: la mentalità pragmatica di chi lotta contro il tempo indica che bisogna puntare il dito da un’altra parte. La bussola si orienta a bordo campo e Andersson viene assunto per riportare la squadra nelle competizioni più importanti, considerata la mancata qualificazione agli ultimi mondiali in Brasile dopo aver perso ai play off contro il Portogallo.

C’è logica, c’è merito, non c’è politica dietro questa scelta.

Soprattutto non è tempo di chiacchiere: Andersson viene messo subito alla prova perché è la sorte stessa a provocarlo con un cammino tutto in salita. Nel girone di qualificazione deve confrontarsi con Francia e Olanda, squadre blasonate, temibili in ogni caso,  sottovalutate da sciocchi spavaldi.

Andersson non è spavaldo e arriva al risultato, non brillante, ma arcinoto: quello che tutti conosciamo.

Dopo la notte estiva e sfavillante di Berlino c’è una notte fredda e amara. Ed è quella di Milano, in questo scorcio di novembre mai così funesto, dove una coppia di zeri testimonia il nulla assoluto.

Mai risultato fu più azzeccato e anonimo, cosi come lo sarebbe anche il 4-4-2 di Andersson; tuttavia, la presenza in campo dei giocatori gialloblu – in svedese Blagult, in fondo a valere è la lingua dei vincitori – è bastata perché l’Italia calcistica tornasse a fare i conti con le illusioni legate a un calcio a sua volta troppo ancorato alla storia e sempre più connesso alla politica.

“Con la storia non si vincono le partite, e le partite non si vincono nemmeno al telefono”. Allusioni al presidente Tavecchio ovvie e riportate da tutti i giornali nostrani, ma che dovrebbero colpire ancor di più perché questa stoccata dell’allenatore svedese è imparabile più o meno per tutti qui. Perché al di qua delle Alpi la nostalgia ha quasi sempre la meglio sulla lungimiranza.

Le parole di Andersson ammoniscono e ben si sposano a quell’immagine che oggi lo ha reso – neanche troppo paradossalmente – più popolare del ct Ventura, che si definisce tra i migliori proprio mentre attende una sentenza inappellabile.

Andersson è di quelli che si gode la gloria per un secondo e poi torna con i piedi per terra. Anzi lo ritrovi chino verso il pavimento per pulire lo spogliatoio del Meazza occupato e sporcato dai suoi giocatori in vena di fare festa.

Nell’immagine dell’uomo-allenatore a mani nude che raccatta rifiuti non c’è nulla di romantico e nulla di sentimentale: c’è l’immagine di chi invece non è restato seduto su una comoda panchina a guardare.Avrebbe potuto perdere, tanto era scritto sulla carta. Ma arrendersi ai pronostici è una mossa che manca di ogni tattica e ovviamente di logica.

Su Facebook un mio amico ha scritto che la Svezia gioca un calcio di provincia. Parole d’aiuto, parole provvidenziali, visto che proprio dalla provincia bisogna ripartire per non diventare davvero provincia nel calcio.

O magari periferia del mondo: non poggio le chiappe su Äpplarö, ma sono seduto su una sedia quando vengo a sapere che una delegazione svedese è  giunta qui nelle vicinanze per reclutare insegnanti, cuochi, infermieri e ricercatori italiani offrendo loro contratti di lavoro vantaggiosi.

A  questo punto o in qualsiasi momento mentre scrivo, alla radio potrebbero passare The Winner takes it all, la celebre canzone degli Abba, gloria svedese quanto la Volvo: nel testo c’è scritto che il vincitore prende tutto. Ma soprattutto, che il perdente non ha alcun diritto a lamentarsi.
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