Un amico, la guerra e la pace

Chi l’ha mai vista la guerra, dalle mie parti? I miei nonni. Sicuramente i più anziani. Conosco qualcuno della mia età che capisce cosa è la pace?No, assolutamente. Ma in fondo ho avuto troppa fretta di rispondere, perché in realtà conosco qualcuno. Con lui ho passato serate spensierate e divertenti, non ho mai discusso di guerra e pace. Tolstoj non c’entra assolutamente e non occorre abbordare pagine un po’ ingiallite di un romanzo sempreverde. Lui, il mio amico Fabrizio, ha visto la guerra da vicino.

Ne ha percepito l’ odore, ha ascoltato i suoni mentre io potrei limitarmi a dire che la guerra è l’esatto opposto della pace. Non sarei capace di tirare fuori una definizione, anche una semplice parola, che possa rendere l’idea.

Fabrizio viene dalla mia città, stretta in una morsa gentile tra la Majella e l’Adriatico. Oggi è caporalmaggiore nel reggimento Lagunari “Serenissima”, l’ unico reparto di fanteria d’ assalto dotato di mezzi anfibi che consentono di combattere ovunque, in qualsiasi posto e a qualsiasi condizione.

Quando ci incontriamo poggiamo i piedi su una terra amica e siamo lontani anni luce dalla base di Farah, in Afghanistan o dal fronte libanese dove il mio amico coetaneo ha sperimentato una quotidianità che mi è sconosciuta. Per carità fatta non solo di combattimenti, ma anche di conoscenza e bellezza.

«Il Libano è una terra bellissima, piena di contrasti. Nelle zone rurali del Sud, quelle vicine al confine israeliano – dove insieme agli arbusti abbondano ordigni inesplosi ndr – tocchi con mano l’arretratezza e la povertà. Poi ci sono città moderne come Beirut o le località del Nord, ricco ed efficiente».

Il 2006 è l’anno della prima missione all’estero e il caporalmaggiore del Reggimento Lagunari rimane in Libano per sei mesi. Non nella bellissima, cosmopolita ed ospitale Beirut, ma più a sud, a Tiro, un tempo splendida città fenicia e oggi – come otto anni fa – troppo vicina al confine israeliano per non essere considerata zona ad alto rischio. Nell’estate di quell’anno Israele attacca il Libano in risposta alle minacce degli hezbollah.  E’ l’ennesima guerra non ufficiale. Le Nazioni Unite intervengono per mediare e fermare un conflitto che comunque non si sopisce subito. Insieme al contingente italiano, Fabrizio è impegnato nel controllo del territorio e fornisce supporto tecnico e logistico alla LAF – acronimo per forze armate libanesi ndr – in un’attività ribattezzata Show the flag. Lo scopo è quello di evitare azioni di guerriglia da parte di fazioni locali ribelli, in una terra martoriata da eterni contrasti e da ordigni disseminati ovunque, che hanno reso alcune zone del paese non abitabili e per giunta pericolosissime.

Una notte mi trovavo con il mio reparto a Nakura. Gli Hezbollah avevano lanciato razzi Katyusha verso le postazioni nemiche e noi dovevamo intervenire. Quei razzi hanno una gettata di trenta chilometri, ma una volta colpiti gi obiettivi la risposta israeliana non si è fatta attendere. In quel momento abbiamo rischiato di trovarci sotto il fuoco amico: paradossalmente la situazione più pericolosa, perché quando Israele risponde non lo fa lanciando confetti.

Nelle due missioni in Libano – Fabrizio ci torna nel 2008 – il paese mostra comunque al caporalmaggiore lancianese il suo lato moderato e ospitale. Le donne indossano lo chador, ma anche jeans attillati e abiti sportivi. Non si respira l’aria di guerra di zone dove invece il conflitto ha travolto tutto, come in Afghanistan, un paese dove fino agli anni settanta le donne lavoravano ed erano libere di indossare quello che volevano. Nel 2010 Fabrizio arriva a Farah, città a sud di Herat, e con il suo reggimento si unisce alla missione internazionale ISAF di stanza nel paese dal 2001 per garantire supporto al governo afghano del presidente Karzai.

Le forze militari internazionali sono in Afghanistan perché è stato il loro presidente a volerlo. Trovo ingiusto che ci definiscano ancora forze di occupazione. Siamo li per fornire aiuti umanitari e logistici, non certo per colonizzare un paese

Fabrizio è destinato alla  FOB – Forward operating base – “Tobruk” di Bala Boluk, dove è chiamato a ricoprire un doppio incarico: è mitragliere di bordo nei ralla sui carri armati ed è anche soccorritore militare.

«Nella valle del Gulistan la situazione non è sicuramente tranquilla. Tuttavia hai la possibilità di incontrare le persone che hanno bisogno di tutto e non conoscono nulla del mondo occidentale. Il contatto è quindi spontaneo ed immediato. Nei momenti in cui sei incaricato di provvedere alla delivery, quindi alla consegna di materiali e beni di prima necessità, i bambini ti colpiscono perché non sono ossessionati dai giochi. Chiedono soprattutto penne biro per scrivere, perché nelle scuole manca sempre tutto».

Per questa ragione, i militari si muovono sempre con un interprete del posto ed insieme a una squadra medica mobile.

«Gli Afghani sono soprattutto agricoltori e pastori che vivono in case di fango e paglia. Ti confronti con coetanei che dimostrano il doppio dei tuoi anni, ma non mancano le battute, gli scherzi, i momenti piacevoli e divertenti. Poi magari arrivano le madri con i figli feriti nelle carriole perché rischiano di morire. Attendono con ansia l’arrivo degli elicotteri americani preposti al trasporto dei feriti negli ospedali da campo»

La paura dell’inevitabile è sempre presente: è una mano invisibile che di tanto in tanto penetra prepotente nelle basi militari. Non esistono posti sicuri, quelli esistono solo nella mente dei profani come il sottoscritto. Tuttavia, il giovane Fabrizio ha imparato ad osservare i più anziani, coloro che hanno alle spalle otto o dieci missioni in zone di guerra. Lui direbbe che si è amalgamato, perché amalgama è il nome dato al tipo di addestramento che i soldati devono affrontare prima di partire, in modo che i superiori facciano le opportune valutazioni.

«Ci hanno attaccato soprattutto nei giorni successivi alla consegna degli aiuti. I ribelli non vogliono che noi aiutiamo gli afghani e fanno di tutto per impedire che gli abitanti del posto simpatizzino con le forze dell’ISAF».

Durante gli attacchi alle basi militari, alcuni si rifugiano nei bunker mentre altri, come Fabrizio, devono rispondere al fuoco nemico. Ci sono le garitte e i sacchi di sabbia; tuttavia lo scudo più grande è costruito con la mente.

Ho visto commilitoni che si lasciano prendere dal panico. Cosa ho fatto? Istintivamente ho tirato pugni sui loro caschi. Cerchi di aiutarli reagendo anche per loro

In quelle situazioni non c’è tempo per fare due chiacchiere come stasera. Lontani dal fronte, poi, c’è sempre il tempo per ricordare le vittime. Fabrizio dedica un ultimo pensiero al tenente Riccardo Bucci, morto a Herat nel 2011 a causa di un incidente stradale.  La mia ultima domanda è d’obbligo, anche se mi aspetto di conoscere già la risposta.

«Tornerei sicuramente. Su una scala da uno a dieci, il mio desiderio di tornare è pari a sette. Anzi, facciamo sette e mezzo»

 


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