Thank you, Florence

Boris Johnson alla fine ha scrollato la sua chioma bionda e cambiato idea. Niente immunità di gregge, immediato lockdown con chiusura di attività non necessarie. Un concetto che comprendiamo, divenuto così cinicamente famigliare per noi italici – già, gli stessi accusati di voler fare la siesta – precursori nella lotta al Covid 19. Il coronavirus è arrivato, oltremanica. Sbarcato chissà dove, ma poco importa, visto che i numeri ci dicono che scalpita anche lì, pronto a sgranchirsi e distendersi dalle spiagge di Brighton e Dover fino alle cime dei monti scozzesi.

Non sappiamo se, magari a causa del coronavirus, la regina abbia dimenticato o no la corona sul trono. Meglio credere che l’abbia ancora sulla testa, come dal 1952 ad oggi, e che non la riponga in un comodino proprio mentre prepara i bagagli – non ci sono più le sovrane di un tempo – e scarrozza via.

La “fuga” della Regina Elisabetta non ha niente di rocambolesco, niente di romantico: non ci sono tracce di cipria sul naso e parrucche all’orizzonte. Di questi tempi, ci sono auto che sfrecciano nonostante oggi ogni traccia di urgenza perda consistenza.

Pur mancando la percezione di avventura in questo abbandono della corte, non c’è mai niente di prosaico in quello che le appartiene o le capita. Nemmeno ora. Per questo, è lecito chiedersi a cosa pensi lei, classe 1926, sopravvissuta alle bombe che piovevano su Buckingham Palace durante la guerra negli anni della sua adolescenza, mentre percorre le 25 miglia che separano la sua residenza dal Castello di Windsor.

Forse pensa all’ennesima minaccia di invasion della sua benamata isola: non quella Normanna – storica anche per her majesty – non quella nazista – mai avvenuta – o quella pacifica del Brit Pop anni ’60.  Forse il suo pensiero va unicamente ad un virus che l’ha costretta a cercare riparo, laddove nemmeno Hitler ci era riuscito.

Perché questa è una invasion che divide, piombata all’improvviso, senza proclami, non annunciata da squilli di trombe – o riff di chitarra. La queen tra le queen può comunque confidare nel suo DNA – vedi la madre e capirai – che custodisce gelosamente il segreto del coraggio di una generazione quasi estinta, ma sopravvissuta ad una guerra devastante e mai andata perduta. In barba al premier Johnson che voleva isolarli, sono loro, gli over tra gli over, a serbare memoria dell’unico antidoto che serve in situazioni di emergenza.

Coraggio che dimora nel DNA di illustri predecessori e pronto a tradursi in sacrificio. Che sembrava estinto finché non abbiamo visto medici, infermieri, operatori sanitari all’opera. Tutti custodi di una luce che si accende quando, nel 1820 e in un giorno di maggio, il 12, Florence Nightingale viene al mondo.

Per prima cosa lei, figlia di ricchi proprietari terrieri inglesi, vede la luce di Firenze, che ispira la scelta del suo nome. Voluto soprattutto dalla madre, che per amore del nostro paese aveva partorito la prima figlia di fronte al golfo di Napoli. Florence apparteneva a una facoltosa famiglia borghese, e per il diciannovesimo secolo, nel mondo fatto di nuovi imperi e capitali, questo voleva dire tutto: una sicurezza economica di cui andare fieri più di ogni cosa, un’ educazione esclusiva, viaggi solo sognati da tanti altri, matrimoni con rampolli di famiglie che contano.

Un matrimonio importante: a questo e solo a questo sembrava destinata anche lei, la piccola Flo. Almeno, questo era il progetto di mamma Frances, cattolica dai principi rigidi e indefettibili, cui anche il padre William non serbava obiezioni. Ma per loro sfortuna, e fortuna dell’umanità intera, la piccola Flo smette ben presto di piegarsi al loro volere. Quando si rifiuta di abbassare la testa, è ormai adolescente: respinge più di una proposta di matrimonio e pur conservando un ottimo rapporto con i propri corteggiatori, ha già deciso di voler vivere la vita a modo suo.

Florence non desidera affatto una vita in prima classe: per questo, alla prima occasione, scende a terra e decide di curare gli ultimi, di cui tutti si sono dimenticati.

Capitava spesso, nella ricca e contraddittoria Londra dell’ottocento, alla vigilia della salita al trono della Regina Vittoria, altra queen tra le queen. Sono gli anni in cui Dickens ambienta romanzi incentrati su orfani maltrattati, e poveri ignorati, in un paese che naviga spedito verso un’epoca d’oro e la nascita di un impero; un epoca segnata da grandi sfide e immortalata grazie alle imprese di grandi nomi. Florence non ha ancora un gran nome, ma la storia entrerà nella sua vita e ne diventerà protagonista. Solo che lei non lo sa, e – anche in caso contrario -non farebbe la differenza.

Lei  vuole assistere i malati. Vuole diventare una brava infermiera, ma a sua insaputa è destinata soprattutto ad esserlo. Il suo nome oggi basta per incarnare tutte le caratteristiche di un lavoro che – ce lo ricordiamo solo ora – è estremamente necessario. Frutto di una riscoperta legata all’emergenza, la professione sanitaria è oggi rivalutata, sfiorando in alcuni casi la santificazione, impressa nella memoria collettiva grazie a visi sempre più provati, con espressioni sovrapponibili ai volti di vecchie figure martirizzate.

Nessuno immaginava, fino a pochi mesi fa, distratti come eravamo da popstar, chef e influencer, di veder popolate le nostre bacheche sui social da foto di volti di tante infermiere, tumefatti da mascherine e giorni senza riposo o senza ritorno a casa, capaci di “invadere” i nostri spazi per ricordarci che dobbiamo loro non sono gratitudine, ma la stessa vita.

Ciò che ha valore oggi, un tempo, semplicemente, non lo aveva: mamma Frances riteneva la professione di infermiera come indegna di una ragazza del suo rango, alla stregua di vivandiera dell’esercito. Appare incredibile, ma in nome dello status sociale che era davvero tutto, mamma Frances, religiosa e caritatevole in chiesa, non poteva sopportare che sua figlia lo fosse anche al di fuori.

Fuori dalle sue grinfie ed estranea alle sue pretese, l’usignolo– questa la traduzione in italiano del suo cognome – è diventato un uragano non appena ha battuto le ali. Di fronte alla sua ostinazione, grazie ad una naturale propensione per l’emancipazione, suo padre si arrende e le assegna una rendita annua ( cinquecento sterline, oggi sarebbero 40 000 euro ). La libera da ogni vincolo, da ogni improbabile promessa di matrimonio in essere o in divenire.

Per Florence è una liberazione, ma per migliaia di uomini e donne sarà una vera e propria benedizione. Dopo due anni di formazione  in un ospedale luterano in Germania, la sua determinazione esplode. Talmente forte che la sua stessa personalità stride con quel cognome singolare e iconico al tempo stesso.

Nel 1853 Florence subisce la prima trasformazione: diventa una guerriera, arruola 38 infermiere che ha istruito personalmente e parte alla volta di Scutari, Turchia. Lì si sta combattendo la guerra di Crimea. Russia da un  lato, Inghilterra, Turchia, Francia e Regno di Sardegna dall’altro, con Cavour che decide di partecipare per assicurarsi un posto al sole in Europa, come a dar credito ai suoi successori.

Arrivata su un fronte invisibile, il soldato Nightingale che non ha numero di matricola, schiera le truppe da lei addestrate. E’ durante la leggendaria battaglia di Balaklava,  con la carneficina immortalata anche in celebri film, che Florence vede centinaia di soldati ammassati l’uno accanto all’altro – sì, possiamo dirlo, assembrati – ed intuisce il senso stesso della sua missione: rivoluzionare il modo di curare i pazienti.

Lì, tra le tende, dove non c’è ricambio d’aria e dove manca tutto, prende corpo l’anima del nursing. Non esistono più solo i concetti di salute e malattia, non esistono più solo ferite da rimarginare. Il paziente va preso in carico, insieme a tutti i bisogni del momento. Va inserito in un contesto sano e tranquillo, assistito in un ambiente pulito, dove entrino luce e calore.

Per Florence l’igiene diventa un’arma affilata, la più importante, l’unica per evitare così tante vittime, alla pari del bisturi che l’infermiera non ha in mano.  Ma è quando arriva la notte che Florence, muovendosi con una lanterna tra i malati, subisce la vera trasformazione. Quella lanterna negli anni diventerà l’oggetto a cui il suo nome verrà associato maggiormente, al punto da creare una vera e propria iconografia.

Florence non è santa, non è maga: è la “signora con la lanterna” che non riposa e il cui volto è noto solo a pazienti sofferenti che, uno alla volta, le affidano il corpo e forse anche l’anima.

Di giorno e nelle retrovie, deve fronteggiare gli stessi alti ufficiali dell’esercito inglese che tentano in tutti i modi di sabotarla. Non manifesta la minima intenzione di arrendersi, semplicemente perché assistere gli altri dà senso alla sua stessa esistenza. Quando torna in battaglia, lo fa per salvare vite, centrando l’obiettivo non una, ma migliaia di volte.

Al ritorno in patria, accolta come eroina, scrive Notes on Nursing, 136 pagine che nessun manuale di infermieristica ancor oggi può ignorare. Cessata la battaglia al fronte, ammalatasi di brucellosi, pretende un’inchiesta che faccia luce sulle tante ombre che rischiano di compromettere l’assistenza sanitaria militare.

Negli anni, la fama della “signora con la lanterna” arriva ovunque, specie negli Stati Uniti dove è lei stessa ad assegnare il diploma alla prima infermiera americana e a lavorare come consulente per l’esercito dell’Unione, impegnato a combattere la guerra civile contro la Confederazione degli stati ribelli del Sud. Ironia della sorte, per una donna dall’animo chiaramente anticonformista e squisitamente  ribelle.

L’uragano Nightingale s’inchina e abbassa la testa solo quando la Regina Vittoria le conferisce la massima riconoscenza – la croce reale della croce rossa–  all’età di sessantatré anni. A settantacinque anni la signora con la lanterna si ammala e perde la vista. A novanta anni, infine, chiude gli occhi quando il sole è più alto. L’usignolo vola via a mezzogiorno, in un giorno di agosto. Eppure la luce non si è spenta.

Florence Nightingale potrebbe essere un’altra queen tra le queen, ma lei ne sarebbe contrariata, visto che amava definirsi piuttosto “uomo d’azione”. Nel 2020, in quest’anno che non dimenticheremo mai per l’epidemia del secolo, ricorre – forse per coincidenza, forse no – il bicentenario dalla sua nascita. Contro la pandemia c’è ancora bisogno di lei e così il primo ospedale da campo di Londra sarà intitolato a suo nome. Forse anche Boris, scrollando la sua chioma, sarà felice della notizia e abbasserà la testa.  Di fronte alla battaglia ancora lunga, questa volta la signora con la lanterna mette tutti d’accordo. Magari lei proverà ad essere ancora lì, tra i malati. Non c’è modo di saperlo, ma è fondamentale sperarlo. Ad ogni modo, viene spontaneo dirle un’ultima cosa: Thank you, Florence.
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