Running Wild, un libro meravigliosamente selvaggio

Markus Torgeby è un ragazzino quando alza le braccia al cielo. Sta partecipando al suo secondo campionato svedese di mezzofondo, e forse anche per questo, non riesce davvero a credere di aver vinto i 1500 m piani. Lo ricorda nel suo libro autobiografico “Running Wild”, pubblicato in Svezia nel 2015 e finito nel mio carrello due anni dopo.

Dopo aver accarezzato il vento, il giovanissimo Markus si renderà conto che era in errore:  la realtà è ben diversa e concluderà la sua gara in ottava posizione.

Un esito che ovviamente lo delude, ma quel finale così amaro si rivelerà negli anni l’aneddoto vincente per il lettore, ben più di medaglie conquistate nei vari campionati giovanili e di sorrisi ostentati. Sebbene non manchino ottimi spunti sin dalla prima pagina, il racconto dell’arrivo all’ultimo posto alla fine di quella competizione costituisce il vero punto di partenza per capire il Markus Torgeby ragazzino ed intuire il carattere dell’uomo che verrà.

In Running Wild l’autore si riferisce spesso ai secondi, non tralasciando decimi e centesimi,  riportando fedelmente i tempi degli allenamenti e delle competizioni come se fossero precetti scolpiti nella sua memoria, moniti nel suo processo di formazione.

Non li falsifica, non tende ad arrotondarli: sono schietti come lui e complici di una narrazione votata alla dimostrazione che si può scandire un’intera vita in singoli attimi.

Tanto da rendere il tempo un flusso continuo di atti consapevoli e folli, un mix avvincente di emozioni brutalmente oneste che dondolano su un’altalena, da dove l’autore – narratore calcola o improvvisa la sua prossima scelta.

Markus Torgeby è ancora un adolescente quando coglie l’importanza della frazione di secondo. A quell’età il tempo sembra dilatarsi a dismisura, ma a differenza di tantissimi coetanei lui non cade nel comprensibilissimo equivoco. Nelle successive gare campestri, confrontandosi con i 1500 metri  o piuttosto con i 3000 siepi, ottiene risultati diversi e contrastanti, lusinghieri e contraddittori rispetto alle aspettative del suo allenatore “avido di caffè”, che lo incita e lo rimprovera, che  a volte gli parla e a volte resta in silenzio. Le competizioni e le prove fisiche sono raccontate con ritmo concitato, a tratti doverosamente forsennato, ma che – sempre miracolosamente – non intaccano minimamente l’equilibrio, lo stile asciutto e mai banale che consolidano una credibilità narrativa sconosciuta ad autori con più pretese.

Te ne accorgi proprio quando il ritmo rallenta e la corsa si fa più leggera: capisci che la scelta improvvisa di Markus di voler vivere da solo in mezzo ai boschi ai bordi dell’Artico sia essenzialmente legata al profondo rispetto per i tempi, i ritmi, le stagioni.

Correndo e fermandosi, Torgeby resta onesto, laddove il più delle volte la sua crudezza riesce comunque a rivestirsi di sobrietà ed eleganza, tanto da rispondere al mio ideale di uomo del Profondo Nord. Lo fa dosando parole che sembrano sempre sussurrate, tanto che è possibile scovarle solo in un secondo momento, spinti dalla volontà di rileggerle.

Con o senza le Nike o le Reebok chiodate ai piedi, la corsa è sempre nella sua testa: lo dimostrano le prove ardue nei campi in erba, nelle riserve, in spiaggia, sui monti dell’Austria. Ma proprio qui, in alta quota dove l’atmosfera diventa rarefatta, accade l’inevitabile: l’arco del piede collassa e Markus si arrende, rinunciando ad una futura carriera – forse gloriosa, forse no – nelle competizioni di corsa ad ostacoli.

Si consuma così l’ennesimo attimo di una vita ancora giovanissima, l’ennesima frazione di secondo che pesa tantissimo: da un momento all’altro Markus deve fare i conti con l’ immobilità e non può scansarla correndo e con il cronometro in mano.

Nel suo caso, la corsa è un desiderio viscerale che si nutre di ripetute e allenamenti, di ansie e contraddizioni nel momento in cui sua madre finisce sulla sedia a rotelle a causa di una forma di sclerosi multipla particolarmente aggressiva.

Sempre grazie a Running Wild, torno a confrontarmi con il Profondo Nord e questa volta mi tocca affrontare i pregiudizi invece che lucidare nuovamente degli ideali: recupero una visione inedita di una famiglia svedese unita e passionale, dove il padre non si vergogna di tenere la mano del figlio ormai cresciuto e dove solo la coriacea nonna materna spinge affinché il ragazzo ventenne vada via di casa. Markus lo farà, ma non smetterà di recitare ogni sera la preghiera notturna che sua madre, – attaccata instancabilmente alla speranza di guarire grazie alla fede e ad un miracolo – gli ha insegnato sin da bambino.

Pur di ricordare a tutti di cosa sia capace la vita, Markus  si infila i rollerblade e spinge la carrozzina della madre in una folle e divertente corsa fino alla spiaggia dove solitamente ad attenderlo c’è il traghetto che lo porta sulla terraferma. In altre parole, in mezzo alla vita di tutti i giorni, dove inverno ed estate, freddo e caldo si alternano senza lasciare scampo e – ovviamente – fiato.

Pur di solleticare la voglia di avventura, Markus parte per un viaggio con degli amici in India e Nepal, e lì corre di nuovo, questa volta dietro ad un autobus che però è partito senza di lui. Torna a risentire quello che ama di più – il suo corpo – non appena si trova al cospetto dell’Everest. Proprio lassù, contemplando il cielo stellato, pensa al prossimo passo e matura l’idea che cambierà la sua vita.

Il pragmatismo nordico concede ai paesaggi e ai suoni di una vita tra i boschi in perfetta solitudine il giusto spazio: l’autore Torgeby è anche il testimone che non lesina dettagli su come e dove sia riuscito a costruire la sua kota, la tenda lappone che è il rifugio in cui è custodito un progetto di vita piuttosto che un sogno, che si concretizza giorno dopo giorno in un vero e proprio inno all’esistenza a contatto con la natura.

Malgrado le innumerevoli difficoltà, malgrado l’inverno sui monti scandinavi non passi inosservato con i suoi quindici o venti gradi sottozero, Torgeby scrive inconsapevolmente una lunga lettera d’amore ai boschi di abeti e betulle, ai laghi ghiacciati, ai sentieri con gli sci ai piedi e alle teste di alce che spuntano nella sua tenda.

Ma proprio quando Markus si abitua al freddo, proprio quando il lettore culla l’inevitabile immagine di un ragazzo biondo con l’immancabile berretto, mutandoni di lana e mani intirizzite, arriva la primavera. Proprio quando ci abituiamo all’idea che una tenda lappone, rami di abete, sacco a pelo siano tutto quello che serve per poter sopravvivere, piomba l’estate in un attimo.

Questo passaggio lascia in eredità una maturità diversa, una volontà di ferro che trova ragion d’essere nella decisione di passare sei mesi in Tanzania, dove poter proseguire gli allenamenti insieme a giovani ragazzi africani che corrono a spalle basse e gambe leggere.

“Volevo esistere, volevo correre” sembra ripetere come un mantra dosando il fiato, con l’eco che non si spegne grazie al respiro che non si arresta, nonostante Markus, incurante dei pericoli e indifferente alle latitudini, corra ovunque e non proprio come Forrest Gump…

…Questo libro – meravigliosamente selvaggio, per rendere giustizia al titolo in inglese – è rimasto chiuso per un po’. E’ successo perché per qualche mese non ho letto e ho lasciato spazio ad un arido altro. Perché al cospetto dei libri, scansavo e dimenticavo anche titoli che fino a pochi mesi prima destavano la mia curiosità.

Grazie all’assoluta autenticità dello scrittore, Running Wild spinge me, lettore, a farmi portavoce di questa verità e a cercarla anche quando il libro si chiude. La verità di questo racconto è martellante, perché dialoga con chi legge e lo spinge a confrontarsi con debolezze o peccati ritenuti solo un attimo prima inconfessabili persino a se stessi. Questa verità preme e freme.

Sto abbordando le ultime pagine e posso dire che con me Torgeby è riuscito – a sua insaputa – a comprendermi e parlarmi da amico, pur non sapendolo. Pur non avendo cambiato di una virgola ciò che gli è venuto da dentro. Per questo, sono convinto che chiunque possa ritrovare, tra le sue pagine, un riferimento o una situazione nella quale è possibile identificarsi completamente.

Con il sottoscritto, ci è riuscito nel momento in cui ha ammesso di aver alzato le mani al cielo in quella gara dei 1500 m piani, prima di rendersi conto che quello non era l’ultimo giro, bensì il penultimo. Se mi soffermassi sul dramma di quel momento – del primo che diventa ultimo – cadrei nell’errore di vedere un uomo a testa bassa. Non ne ho intenzione perché sarebbe ingiusto e assolutamente sbagliato.

E’ molto più proficuo – credo – fare uno sforzo e concentrarsi su cosa abbia spinto un uomo a correre più veloce di tutti gli altri – a prescindere dalle gare o dalle categorie – sin da quando era un ragazzino.

Se penso ad un runnerpardon corridore – come lui, mi viene in mente l’immagine impalpabile di una carezza data al vento. Inevitabile, dato che sono cresciuto seguendo le gesta di Carl Lewis, quel figlio del vento che faceva sognare mia madre. Capace di impressionarmi prima di tanti altri atleti, in grado di dimostrarmi che è possibile tifare per l’uomo lontano più che per il paese e per il tuo vicino.

Ma se dovessi pensare a cosa esalta e a cosa spaventa realmente tanti altri, allora dovrei ammettere di non essere in grado di rispondere. E riconoscere, pur avendo fatto del mio meglio, che forse mi sarà impossibile tagliare il traguardo.

 
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