Quando il giorno divenne notte

Una volta ho provato a raccontare l’inenarrabile. Ammetto candidamente che non ho avuto pudore, nel concepire e immaginare quel personaggio apparentemente venuto fuori dal nulla. Un vecchio signore appoggiato al suo bastone che racconta la sua storia al giovane protagonista, in visita con suo padre al cimitero ebraico di Praga. Era uno dei momenti topici del mio romanzo, Il sentiero delle monete false, pubblicato ormai qualche anno fa.

Quel vecchio signore da me immaginato anni fa oggi sarebbe coetaneo di Sam Pivnik. O forse di Denis Avey.

Chi sono Pivinik o Avey? Non mi aspetto risposte, ma forse nemmeno un’espressione convinta sul volto di chi sta leggendo. Non li conoscevo nemmeno io, prima di imbattermi  in storie che ormai appartengono all’umanità intera.

Perché è cosi che deve essere. L’ultimo sopravvissuto di Pivnik è quel libro dove a prevalere è la notte che prende il posto del giorno, dove a spiccare è l’inverno crudo e fangoso che spodesta l’estate assolata.

Stagione che nei campi di sterminio diventa sinonimo di mosche e polvere: proprio lì, dove si accasciano stremati uomini e donne, come nel fango d’inverno. Non c’è distinzione, nemmeno nelle stagioni. Nel mezzo del romanzo di questo giovane – all’epoca – ebreo polacco si consuma una tragedia familiare – che coincide anche nel suo caso con il destino fatale di un’intera comunità – Pivnik sopravvive miracolosamente a una lunga serie di prove. Ma non ai ricordi.

Il grande campione. Se dovessi scegliere un’immagine, un frammento de L’ultimo sopravvissuto, probabilmente opterei per questo. Ci sono risvolti più drammatici e scioccanti nelle pagine seguenti, eppure questo è un raro esempio di ricordo, o emozione, che può travalicare secoli, confini, generazioni.

Pivnik ricorda nitidamente una partita di calcio disputata tra ebrei e ariani: le SS tifano a bordo campo – e sbavano aggiungo io, come cani affamati. In campo Pivnik vede tra i pali Nunberg – il suo mito sportivo insieme al pugile Czortek, medaglia d’oro olimpica e poi deportato – ormai ridotto allo status di internato con un’esile uniforme a strisce.

Nunberg è un portiere, una leggenda del calcio nella Polonia degli anni trenta. E’ebreo.

“Quell’uomo di un metro e ottanta, sempre sorridente, non esisteva più. Al suo posto entrò in campo un Muselmann dal passo strascicato, gli occhi assenti e affossati sul volto grigio e scarno. Sembrava confuso e a stento riusciva a tenere la palla tra le mani”.

Ero il numero 220543. Diciamolo subito, è il numero inciso su una tavoletta di legno assegnata al soldato britannico Denis Avey  che ha combattuto contro le truppe di Graziani nel deserto egiziano. L’ambientazione, i nomi esotici di forti espugnati – nonché i potenti blindati nemici ossia gli M13/40 del Regio Esercito – sin dalle prime pagine del suo libro spianano la strada verso nord. Non verso l’amato Essex, in Inghilterra, ma dritto fino alle Alpi, all’Austria, alla Boemia. Infine la Polonia.

Ad Oświęcim, proprio li, nella città che i tedeschi ribattezzano Auschwitz per darle un nome più teutonico e più ariano. Più gelido.

Avey mi ha colpito. Per la prima volta grazie a lui ho letto centinaia di pagine dedicate alla Shoah dove il sottofondo non è fatto di voci giustamente sommesse, strozzate fino all’inverosimile. Le pagine del reduce Avey tirano continuamente pugni e calci, in tutte le direzioni, e non in senso metaforico.

Direi che lui stesso ha schiaffeggiato pagine intere del suo Auschwitz, ero il numero 220543 edito da Newton Compton.

Pugni che non prendono solo lo stomaco, ma scuotono il cervello e hanno il potere di non annebbiarti la vista almeno fino all’evento clou.

L’Umtausch, lo scambio. Il soldato Avey si risveglia dal torpore e dallo choc. Cova rabbia perché si rende conto che con il suo lavoro nel cantiere Buna Werke è costretto a faticare dodici ore al giorno per lo sforzo bellico tedesco. Ma poi arriva un momento di quiete ed è decisivo.

Una carezza dopo tanti pugni strozzati: Denis disegna una formula matematica su un muro. Ed è lì, di fronte al disperato bisogno di ritrovare una logica a tutto quanto, in un mondo dove uomini senza Dio si credono Dio, che conosce Hans.

Un incontro che cambia la vita, davvero. Denis inizia a meditare l’impensabile ed infine raggiunge il suo scopo:

Decide di prendere il posto di Hans, un ebreo olandese distinto e capace di dimenticare tutto e fermarsi di fronte al teorema disegnato sul muro. Hans è detenuto ad Auschwitz III, ad est di Birkenau e Auschwitz I. Avey agisce ed è lucido: già, è consapevole che la morte non gli concederà sconti…

Verità è ciò che è lontano, anni luce, dal dubbio o dall’incertezza. Forse per quello Avey ha scelto di menzionare il suo numero di prigioniero, nel titolo. Ma la verità deve anche resistere, e perché no, affascinare. Anche ad Auschwitz, persino a settantun’ anni dall’apertura dei suoi cancelli.

C’è chi dubita e chi minimizza, chi pensa che tutto ciò appartenga al passato. Ma anche in tempi che sembrano remoti un essere umano si può lasciar guidare in lande barbare dove sembra esserci spazio solo per un unico inflessibile comandamento. Un unico immotivato sentimento: l’odio.

Ad Auschwitz Avey e Pivnik vivono due storie diverse. Le loro strade non si sono mai incrociate, almeno non c’è nessun riferimento in tal senso. Pivnik è ebreo, fa parte del Rampe Kommando: fa parte del gruppo scelto per accogliere i prigionieri come lui, gli Häftlinge, alla banchina della stazione. Avey è un soldato inglese, gode di privilegi in quanto prigioniero militare. Insieme agli amici Bobby e Jimmy – nomi che suonano solari rispetto ai suoni mesti o grevi di tutti gli altri protagonisti – è assegnato alla IG Farben, la stessa fabbrica dove lavorò Primo Levi.

Eppure c’è un luogo che li accomuna più di tutti. Che accomuna in realtà tutti gli internati

E’ L’Appellplatz, proprio li dove Pivnik ha visto giocare per l’ultima volta il suo mito. Dove sia lui che Avey hanno visto l’uomo con la testa rasata che pendeva da una forca.

Magari uno dei tanti muselmanner: uomini scarni, ormai senza traccia di sentimenti o pensiero sul volto. Coloro che secondo Levi incarnano “tutto il male del nostro tempo”.

No. Possiamo avere delle nozioni ed emozioni, possiamo immaginare, ma non possiamo immedesimarci in  uomini a strisce che sembrano macchie, torturati da zoccoli di legno che affondano nel fango quando non è tutto il resto del mondo a tormentarli. L’inferno ha una bolgia ancora più infuocata, al suo interno, nonostante il gelo invernale, nonostante lì nessun uomo osi urlare oppure alzare lo sguardo, perché rischia di essere bastonato o fucilato.

Non so raccontare l’inferno e quel luogo è indescrivibile. Ma forse capisco perché. Quello è il luogo delle selezioni, del vai a sinistra o vai a destra, di momenti interminabili.

Poi mi ricordo che c’è l’appello anche all’inferno, sinonimo di una nuova giornata che comincia.

A proposito, questo racconto l’ho scritto alla fine di una giornata faticosa.

Ma ce la possiamo immaginare, noi, una giornata che comincia, ad Auschwitz?

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