Le voci dei Limmari

Virginia e Pia camminano l’una accanto all’altra. In questa foto in bianco e nero sono ritratte mentre partecipano al primo Presepe vivente di Rivisondoli, paese che in inverno si congiunge ai vicini comuni di Roccaraso e Pescocostanzo in un triangolo bianco. Creato dalla neve che cade abbondante su questo altopiano, noto ad altrettanto noti vacanzieri che affollano piste da sci battute ogni inverno.

C’è un luogo che in molti – troppi, credo – non conoscono, riconoscibile e riassumibile in un campanile che si staglia all’ombra di una grossa pietra. La ritrovo in una foto pubblicata a corredo di un articolo scritto dall’autore Antonio Secondo.

Quella foto era il tassello che mi mancava per cominciare a buttar giù parole che vanno e vengono da quando sono ragazzino. Dai tempi in cui mia madre mi parlava di una frazione di Roccaraso nota come Pietransieri, luogo da lei frequentato nei suoi anni di studentessa ai tempi delle superiori.

In quei giorni per lei indimenticabili e spensierati ha iniziato a tessere – inconsapevolmente, idealmente – una tela frutto di ricordi e testimonianze di persone del luogo a lei rimaste care, anche negli anni a venire.

Quando mia madre mi ha parlato per la prima volta del massacro di Pietransieri, lo ha fatto da donna e da madre, mentre io non ero ancora un adulto. Ho dovuto appellarmi alla mia fantasia per costruire uno scenario virtuale, per immaginarmi luoghi e volti che non avevo mai visto. Difficile, considerando l’idea mondana che avevo di Roccaraso, tremendamente vicina e lontana da quel masso che chiamano la Petra.

Un masso che alla luce di quanto accaduto durante la seconda guerra mondiale in un giorno di novembre, è un macigno che non può essere rimosso. Inamovibile come i macigni che gravano sulle coscienze di ciascuno: pertanto la Petra resta e resterà lì, incastonata in uno scenario naturale che non ha bisogno di ritocchi, nemmeno quando piazze e strade sono deserte.

Non potrebbe essere altrimenti, perché la gente che è nata e vissuta qui, non conosce e non merita filtri.  E’ gente che passa il mese d’agosto a raccogliere legna per l’inverno, gente pronta quindi a farsi beffa delle mezze stagioni e a scrollarsi di dosso le mezze misure.

In fondo, è la cara gente d’Abruzzo di cui parlava Alba De Cespedes, fatta di persone oggi invecchiate o dimenticate. Esseri umani mai andati a caccia di gloria, troppo impegnati ad opporre resistenza a calamità inevitabili o guerre e sciagure pianificate da altri.

Già, c’è stata una guerra da queste parti, e non bisogna risalire a Giulio Cesare o a Gengis Khan. C’è stata una guerra che ha saputo palesarsi in tutta la sua efferatezza e lo ha fatto quando i miei nonni erano giovani come tanti altri. C’è stata una guerra che reclama giustizia, che nel terzo millennio tenta affannosamente di imporsi grazie alle sentenze dei tribunali di mezzo mondo. Quella della giustizia è una guerra senza speranza: lo sappiamo tutti, non esiste condanna per feroci criminali di guerra ripescati nel momento in cui sono attaccati ad una maschera dell’ossigeno che sembra creata ad hoc per loro.

Hanno avuto tempo di tornare a casa, di vivere, sposarsi, gioire e soffrire come tutti: non contenti, affidandosi all’ossigeno sperano di scacciare la morte, suscitando pena e compassione altrui. Altrettanto furbescamente, tentano di “scampare” a domande sulle loro azioni nefaste, prive di cuore e ragione.

Eppure, la giustizia ci prova: in questa fredda giornata novembrina, rileggo la sentenza di uno di quei tribunali. Un tribunale vicino, quello di Sulmona, che condanna la Germania – quale paese erede del Terzo Reich – a risarcire i sopravvissuti e i parenti delle vittime dell’eccidio di Pietransieri avvenuto esattamente settantacinque anni fa.  Le sentenze in questi casi sono sempre tardive, ma si rivelano puntuali quando offrono il pretesto per raccontare. Perché il racconto, inevitabilmente, è l’unica forma di giustizia che spesso resta. L’unico modo per tornare indietro nel passato e trasformarlo nel presente.

 

Pietransieri, 21 novembre 1943. Sono le 9 del mattino ed è l’ultima domenica dell’Avvento. Nelle chiese protestanti di tutta la Germania si stanno commemorando i defunti. Molti chilometri più a sud, ma a nord della linea Gustav che divide l’Italia in due – una già libera, l’altra ostaggio dei nazisti – c’è il bosco di Limmari, simile a tanti altri boschi d’Abruzzo e puntellato da casolari che portano i nomi delle famiglie del luogo: Macerelli, Aloisio, D’Amico, Di Battista.

Le persone qui sono indaffarate ogni giorno per tirare avanti, non si curano delle strategie o dei proclami di guerra. Contrariamente a quanto viene loro intimato dal generale Kesserling il 30 ottobre, in molti decidono di restare e non sfollare verso la vicina Sulmona.

Da queste parti non si  parla la lingua di Goethe e Schiller. Per questa ragione o per tante altre, gli abitanti di Pietransieri non comprendono pienamente cosa significhi vivere proprio a ridosso della Hauptkampflinie lungo il Sangro, il fronte di combattimento principale teatro di guerra in quell’autunno di settantacinque anni fa.

Non hanno modo di intuirlo nemmeno Virginia Macerelli e Pia Cocco, bambine allevate all’ombra de la Petra. Virginia e Pia non lasciano il loro paese perché anche le loro famiglie hanno deciso di restare. E’ improprio – credo – parlare di rifiuto o disobbedienza. E’ più corretto appellarsi al buon senso di gente di montagna, che non se la sente di abbandonare le proprie case e i propri animali. Incapace di andarsene lasciando in balia del destino, o dando in pasto al nemico, anziani che in molti casi non possono muoversi.

Tuttavia, il nemico non si prende la briga di comprendere e ne dà prova una domenica, che comincia come tante altre e che presto si rivelerà unica nel suo dramma. A Pietransieri sono ancora le 9. Cinque uomini in uniforme si stanno affrettando a ultimare i preparativi. Di fronte a loro, 130 persone radunate nel cortile della trebbiatura. Tra loro ci sono tante donne e tanti bambini. Alle loro spalle si staglia una quercia.

Sono ancora le 9 e saranno sempre le 9 per Virginia e per la nonna Laura. Virginia ha sei anni, l’età giusta per essere ancora curiosi, per conservare l’ultimo residuo di ingenuità di fronte all’ombra del fucile che si allunga su tutta la tua famiglia.  C’è suo padre, ci sono i quattro fratelli, sua madre non manca, la sorella di sedici anni è presente. Ai suoi occhi la famiglia potrebbe sembrare riunita come accade nei giorni di festa o nelle lunghe giornate d’inverno accanto al camino.

Non è così e Nonna Laura lo sa bene. Nel momento in cui lo scatto dei fucili automatici tedeschi interrompe la pace di quei boschi durata millenni, Nonna Laura si getta nel canale e scampa miracolosamente al massacro.

Ma tutto questo Virginia non lo sa: in un attimo si ritrova ferita, ma viva, sotto il corpo esanime di sua madre. Accanto a lei, in quella che si chiama Valle della Vita, fino a pochi secondi prima c’erano 130 persone. Ora ci sono 128 cadaveri. A dispetto di calcoli e previsioni, i teutonici nulla possono contro il fato o più semplicemente la tenacia di chi popola queste terre. Nonna Laura è sfuggita ai colpi dei fucili automatici, mentre Virginia è sopravvissuta e nessuno tra i soldati se ne accorge.

I tedeschi non lo sanno: malgrado le mine utilizzate per far saltare in aria i cadaveri – per fugare dubbi ed evitare superstiti – c’è una madre che, malgrado sia morta, continua a proteggere sua figlia. Standole sopra, la mamma salva Virginia in tutti i modi possibili. La nasconde dagli sguardi assassini del nemico, la protegge dai rischi del bosco, la ripara dai rigori della notte quando sui vicini boschi dei Limmari piomba il silenzio a ribadire che le voci a lei così famigliari non torneranno più.

Nel cuore dell’Appennino Abruzzese c’è dunque un cuore che batte e non si può non dargli ascolto: è quello di una bambina di sei anni ferita alle gambe coperta dallo scialle della madre. Con calore e amore che non possono spegnersi neanche dopo l’ultimo respiro, Virginia viene tenuta in vita perché possa tornare alla luce una seconda volta. Esattamente l’indomani, quando sua nonna torna nel luogo della strage e la salva.

Pia è nel suo casolare. Si salva forse per fortuna, probabilmente per miracolo, quando i tedeschi fanno saltare in aria la sua casa come tante altre. E’ successo prima di questo 21 novembre, giorno dell’eccidio con il più alto numero di vittime nella storia del nostro paese. Altre persone sono state uccise, pur non appartenendo a squadre partigiane: accade ad una donna il giorno 15, a sei uomini il giorno seguente, mentre il 17 novembre una donna viene soccorsa da un signore di ottant’anni. Vengono giustiziati entrambi, mentre l’indomani, sotto il cielo di metà novembre, due giovani donne, un uomo di settant’anni e il figlio dicono addio al mondo per sempre.

Al nemico in uniforme, che calpesta terre pacifiche e operose con stivali in feltro, tutto questo non interessa e così, tutta la crudeltà che il mondo non riesce a contenere, si sprigiona in questo piccolo villaggio.

Gli abitanti di Pietransieri che sono rimasti, in molti casi sfollati nei boschi pur di non abbandonare la propria terra, sono ritenuti colpevoli di “intralciare” le operazioni belliche della prima divisione paracadusti della Wehrmacht. Già, si tratta del primo reggimento che sta difendendo la linea del Sangro, dato che gli alleati sono arrivati in Molise e, intanto, spingono dal Sud.

Per noi il resto è storia. Per loro, vittime e sopravvissuti, il resto fa parte di un domani arrivato troppo tardi. Nel 2018, poco o nulla si può aggiungere al dramma.  E allora non resta che appellarsi ancora una volta ad una sentenza giunta appena un anno fa e che dà modo alle istituzioni e ai cittadini di quei luoghi di immaginare – e perché no – costruire con i soldi del risarcimento che la Germania deve loro, un Parco della Pace che affianchi il Sacrario eretto in paese in onore delle vittime.

Può non esserci giustizia, a questo mondo. Però possiamo far valere la testimonianza per far vincere la memoria. Ricordando, condanniamo chi è tornato a casa tra voci festanti e non ha mai chiesto perdono per quello che ha fatto.

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