La verità che non ti ho detto

Gabriele Micalizzi è un fotoreporter di trentaquattro anni, ma il suo racconto dall’ospedale San Raffaele di Milano è soprattutto la testimonianza di un sopravvissuto. Lo dimostra l’unicità che contraddistingue la sua vicenda alla pari di tutte le storie che riguardano da vicino coloro che – magari per miracoli o ragioni spesso inafferrabili – sopravvivono a morte certa.

Intanto, nonostante sia al sicuro, l’anima di Gabriele sembra destinata ancora a percorrere binari impervi. Probabilmente è scritto nel suo DNA, così come in quello di tutti i colleghi che fanno parte di Cesura, il collettivo di fotografi nato nel 2008 sulle colline piacentine.

In ogni caso tu, lettore e narratore, sei chiamato a fare un giro di giostra quando Micalizzi racconta ciò che è avvenuto dopo che un razzo RPG lanciato dall’Isis lo ha colpito, proprio mentre documentava l’ultima avanzata curda in Siria.

La sua descrizione suona addirittura come un accenno di poesia,  quando fa riferimento “al rumore metallico del razzo, al giallo che si spande dopo l’esplosione, al cielo ancora azzurro” sopra di lui. Ma dopo aver vagamente accennato alla sommità del cielo, nella sua esperienza di uomo ferito gravemente c’è spazio solo per l’abisso, per un inferno narrato in chiave pulp dove il fotoreporter milanese racconta della “mano maciullata”, delle sigarette che vuole “afferrare” nonostante tutto, dell’occhio sinistro che assomiglia ad “un uovo alla coque”.

Poi, quando ricorda l’attimo prima dell’intervento, fa un nome che nella mia mente è offuscato da ricordi che sembrano anestetizzati. Citando Andrea “Andy” Rocchelli, suo amico e collega, scatta nella mia mente una doverosa rincorsa.

Le immagini rimbalzano e i secondi volano. La mia mente ha sempre più fretta di raggiungere la fabbrica Zeus, nella provincia ucraina del Donbass. E’ primavera inoltrata, come dimostra la data su calendari e palmari.  Il 24 maggio 2014 nei pressi di questo stabile c’è un’immagine che stride con quella della primavera. C’è infatti un treno abbandonato: in un primo istante, emerge prepotente l’immagine di un ammasso di ferraglia ormai inutile, che in passato sfrecciava sui binari. L’attimo successivo si rivela provvidenziale perché quella suggestione così superficiale svanisce: ai miei occhi quel treno ricorda lo spettro evocato per far paura, perché blocca la strada di un fazzoletto di terra che il resto del mondo ignora, ma che rientra in una zona di guerra contesa tra separatisti filorussi e ucraini, persone che pur parlando la stessa lingua, sistematicamente non s’intendono.

Quando Andrea “Andy” Rocchelli si trova al cospetto di quel treno, probabilmente ha tutta altra cosa in mente rispetto al sottoscritto.

Dallo stesso taxi che lo ha condotto fino ai dintorni della città di Slovianks, situata nell’oblast di Donec’k, sono scesi anche William Roguelon, collega e fotoreporter francese nonché Andrej Mironov. Più che un interprete, Mironov è un attivista russo di cinquant’anni, che ha denunciato apertamente i crimini di guerra commessi in Cecenia e che si è opposto al regime sovietico quando il leader era Gorbačëv. Proprio lui – quello che chiamiamo Gorbaciov – ideatore e promotore della Glasnost’, l’icona di un mondo evaporato all’improvviso.

Intanto, quel treno è ancora lì e va preso sul serio: più che un fantasma, è una  pedina strategica per le milizie filorusse schierate contro la Guardia nazionale ucraina e l’esercito regolare di Kiev. I primi occupano gran parte della regione, mentre i loro nemici studiano la controffensiva arroccati nei pressi e in cima alla collina di Karachun, distante poco meno di due chilometri. Mi riferisco ad un lembo di terra che il resto del mondo guarda con atteggiamento distaccato, come se non esistesse o fosse figlio della fantasia. Proprio come se si trattasse del piccolo cortile dei ragazzi della via Paal descritto nel romanzo omonimo di Molnár.

Invece, Andrea gli dà l’importanza che merita, come fa con tutto ciò che lo coinvolge da vicino: sta immortalando quel treno e vuole guardarlo con i suoi occhi senza alcun pregiudizio, per capirlo veramente prima di fotografarlo e raccontarlo. Non c’è da stupirsi, visto che quella è da sempre la sua regola imprescindibile – dicono – il comandamento da cui trae ispirazione il lavoro di una personalità realmente libera e indipendente.

Ecco perché in questo caso freelance è una parola che andrebbe scritta evidenziandone soprattutto il primo tratto: la verità è figlia unica degli occhi e dell’anima di Andrea mentre lavora. E’ stato così nella baraccopoli di San Ferdinando, in Libia durante la primavera araba, o in piazza Maidan prima della fuga del presidente ucraino Yanukovic. Ma a differenza di giorni ed eventi che il suo cuore non vedrà mai distanti dal presente, il 24 maggio 2014 per “Andy” è un giorno profondamente diverso.

L’amico Andrej ha appena parlato con un uomo vestito in abiti sportivi e che sembra sbucato dal nulla. Il messaggio è chiaro, cinicamente a posteriori suona davvero lapidario: bisogna andare via e scappare. Da interprete, mi viene in mente effettivamente che sparpagliatevi possa essere la traduzione giusta, l’imperativo più adatto in attimi concitati che precedono una lunga scarica di proiettili. Il silenzio di quella zona verde, circondata da una collina dove spunta un’antenna televisiva, è interrotto: il taxi è crivellato di colpi, ma poi le armi sono puntate su un fossato dove Andrea e i suoi amici cercano riparo. Sono fucili? Si tratta di artiglieria pesante? I colpi arrivano dalla collina? Quale delle due fazioni è responsabile di quell’ attacco così lungo e ingiustificato?

Ore dopo, così come nei mesi successivi, William Roguelon – riuscito a fuggire – racconterà la sua verità e sarà solo. Perché Andrej e Andrea saranno uniti per sempre dallo stesso ineluttabile destino, che impedirà loro di raccontare la verità un’ultima volta.

Passano gli anni e in seguito ad una rogatoria internazionale richiesta dai magistrati italiani chiamati a far luce sulla vicenda, inizia un processo – ancora aperto – che vede per protagonista un solo imputato il cui destino è legato imprescindibilmente ad un insindacabile verdetto.  Vitaly Markiv sarà giudicato colpevole dell’omicidio di Andrea e Andrej, oppure verrà ritenuto estraneo ai fatti, come auspica la comunità ucraina in Italia. Per i cittadini ucraini Markiv è l’ eroe che ha lasciato l’Italia  – viveva con la madre nelle Marche fino al 2013 – per arruolarsi volontario in un battaglione regolare e combattere contro i separatisti guidati da Igor Strelkov, indicato come il testimone chiave ancora inascoltato. Al di là di contese territoriali, di equilibri geopolitici, di personaggi spariti nel nulla o tratteggiati come se fossero i protagonisti di un film di spionaggio, c’è ancora in ballo la verità suprema. Quella che per Elisa e Rino, genitori mai stanchi di combattere una battaglia che non conosce retorica, è più importante di tutte le altre. Lo stesso dicasi per i colleghi, per chi è sopravvissuto, per chi non ci è riuscito, per tutti quelli che della verità non sanno fare a meno.

Gli amici di Andrea hanno così creato un blog che riporta fedelmente la cronistoria degli eventi e delle udienze, l’ultima tenutasi l’8 febbraio scorso. Ma accanto alla sezione notizie,  il blog ospita una galleria di immagini: tra lacrime, scene di guerra e combattenti in primo piano di zone remote, una immortala una ragazza ben vestita e al sicuro.

Ho scoperto che nel 2011 Rocchelli aveva ultimato il suo Russian interiors, reportage fotografico – side project di livello premiato nel 2015 dal WordPress photos – che vede protagoniste giovani donne russe immortalate all’interno di abitazioni dove spiccano carte da parati, televisori estinti in Occidente, drappi di velluto invadenti.

Sembrano a caccia di un primo piano, ma a guardarle più da vicino – penso – si materializza invece la caccia spietata a quel senso da dare alla propria esistenza e comune a tante giovani vite. Posando, le donne di Andrea condividono lo stesso destino delle muse di Degas o del prolifico Renoir: vivono e si regalano un attimo denso di significato. Forse destinato ad essere più importante del loro stesso avvenire, logicamente ignare di ciò che accadrà,

Nel raccontare quello che è successo dopo l’attentato, Gabriele Micalizzi non ha mai dimenticato la sua Leica. Stando alle sue dichiarazioni, la macchina fotografica ha protetto il suo viso dalle schegge che non hanno risparmiato invece i militari curdi accanto a lui. A lei, Gabriele attribuisce il merito – o magari il miracolo – di aver salvato la sua vista. Con quegli occhi, ci sarà spazio per altri scatti per ribadire ancora una volta – sussurrando o urlando – il suo motto preferito

Never give up. Mai, mai cedere è un’ispirazione continua, l’imperativo inciso sull’anello che Gabriele tiene sempre al dito, dove c’è spazio per una data da non dimenticare mai. Il 24 maggio 2014 era sabato ed era primavera, ma per qualcuno il sole sorgeva per l’ultima volta.

 
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