La ragazza più veloce del mondo

La vita è imprevedibile:in un giorno  qualunque potremmo trovarci a Clarksville, Tennessee. Potremmo  imboccare il trafficato Wilma Rudolph Boulevard diretti verso il più vicino Walmart, magari per respirare un po’ di consumismo a stelle e strisce. Terminati gli acquisti e voltando le spalle al boulevard, però, il nome di Wilma Rudolph non scompare. Approssimandosi al Liberty Park, in quel contesto verde circondato da alberi e in una cornice che sa di libertà, si trova un centro eventi intitolato a suo nome.

Venendo da un altro continente ci si ricorda che ogni città americana tiene profondamente al proprio eroe. Ciascun villaggio o comunità appunta idealmente la sua personale stella sulla propria bandiera; ogni angolo diventa pretesto per un tributo, un giorno del calendario può trasformarsi in una data da celebrare anche solo entro i confini di una contea. Finalmente il viaggiatore venuto da lontano viene a sapere che il 23 giugno, nello stato del Tennessee, è il Wilma Rudolph Day.  E allora scatta la fatidica domanda: chi era Wilma Rudolph?

Non la trovi sui libri di storia, quel nome non ricorre spesso in film o romanzi. E, a quanto ne sappia, Netflix non le ha ancora dedicato una serie evento.

A questo punto la caccia su Google è scontata. Sarà altrettanto scontato – per molti – fermarsi alle solite informazioni che si limitano a perimetrare un personaggio passato alla storia con poche e semplici notizie, associandolo ad una stagione della sua vita. Come se il valore di una persona potesse essere trattenuto o giudicato da una parentesi.

Ad ogni modo, anch’io riconosco che l’anno decisivo per Wilma è il 1960. Luogo: Roma. Evento: Olimpiadi. Ecco, anche il sottoscritto è capace di ridurre l’essenza di una persona al suo momento di gloria, schematizzandola, e ignorando magari quello che è venuto prima.

Ma i diciannove anni che separano il 1940 – anno della sua nascita – e il 1959, sono anni che non si possono tralasciare e che meritano lo stesso un taglio narrativo, perché hanno tutto il sapore del prequel, del racconto che precede l’impresa.

A Roma, in quelle Olimpiadi indimenticabili per gli italiani e per il nostro team olimpico, non si scaldano solo Cassius Clay – non ancora Muhammad Alì – Nino Benvenuti o Livio Berruti. C’è una giovane donna alla sua seconda olimpiade e che nella sua giovane vita ha già sfidato l’impossibile.

In un pomeriggio di quella calda estate romana – diversa da tutte la altre – Wilma Rudolph è ferma e concentrata ai blocchi di partenza, in procinto di gareggiare per la finale dei 100m in uno Stadio Olimpico in fermento. Ma nel lunghissimo secondo che precede la corsa destinata a cambiare per sempre la sua vita, Wilma è ancora una ragazza afroamericana di diciannove anni, appassionata di sport da sempre. Al liceo ricordano ancora il suo talento per il basket, i suoi 803 punti in un solo anno di competizioni. Nonostante le valide premesse,  l’incontro della vita avviene quando viene notata da Edward Temple. Temple non è a caccia di fenomeni della pallacanestro: lui è – e sarà – il guru dell’atletica leggera femminile americana.

Ed – come viene chiamato – è rimasto impressionato dalla velocità di Wilma e le propone di partecipare alle sessioni di allenamento estive perché possa crescere tecnicamente come velocista. Inconsapevole dell’ importanza della sua decisione, lei accetta semplicemente per restare impegnata e non perdere tonicità tra un campionato ed un altro.

Invece, nel suo destino c’è la corsa e a testimoniarlo non è solo il suo presente. Quando ha cinque anni Wilma Rudolph contrae la polio e per ben sette anni è costretta a percorrere ogni volta ottanta chilometri per raggiungere l’ospedale più vicino.

Sono gli anni ’40: nel vecchio Sud non sono in molti a “gareggiare” per le cure e la riabilitazione di una bambina di colore, povera, ventesima figlia – su ventidue – di un facchino che ha sposato in secondo nozze una cameriera. Forse padre Ed è stato il primo a stabilire un primato in famiglia, ma lei non se ne cura più di tanto.

Wilma è così determinata che vince la battaglia contro la malattia. Affidandosi alle cure ospedaliere e alle infinite premure della famiglia, trionfa contro la polio. Tutto il resto del mondo si accontenterebbe che tornasse a camminare bene, ma lei non può limitarsi a quello. Lei, ormai, ha capito che è nata per correre.

E’ una creatura Born to Run, venuta al mondo dopo il leggendario Jesse Owens  – suo idolo – e ben prima di Springsteen. Wilma entra nel team delle Tiger Bells che riunisce le più forti velociste degli Stati Uniti e alla sua prima Olimpiade, a Melbourne, arriva terza e conquista la medaglia di Bronzo della staffetta.

Volendo parteggiare per la mia capitale, è comunque a Roma che la Storia olimpica cambia per davvero. Iniziano le vere Olimpiadi Moderne, quelle seguite in tv, quelle – un po’ più prosaiche – dei diritti televisivi, che però consentono a milioni di persone in tutto il mondo di seguire le gare. Gli atleti vincenti diventano icone pop. I grandi campioni si guadagnano un posto al sole, il loro nome basta ad evocare uno sport praticato da milioni di atleti.

Vale per il pugile Cassius non ancora diventato Muhammad. Vale per Livio Berruti che vola verso l’oro dei 200 m in un sabato pomeriggio. Vale per Abebe Bikila, il maratoneta etiope che, correndo scalzo, arriva per primo sotto l’Arco di Costantino. Non prima di essere passato sotto la stele di Axum, l’obelisco che i fascisti predatori hanno preso con la forza e portato a Roma dopo aver invaso l’Etiopia.

E poi, ovviamente, è anche l’olimpiade di Wilma, che intanto è partita e sta per trionfare.

Dal blocco al traguardo, 100 m in undici secondi: è record olimpico, non mondiale per il vento giudicato a favore. Roma la omaggia, ma non è finita. Nel giorno dei 200 m l’attesa è spasmodica e lei non tradisce le attese. Di nuovo batterie – con record annesso – semifinali e la finale, ventiquattro secondi tondi. E’ questo il momento in cui tutti si accorgono di lei – America first, of course. La gazzella nera  – così la chiamano i giornali italiani – però non ha ancora scritto la storia.

A non darle pace è il solito pensiero. Oltre ad essere nata per correre, lei è venuta al mondo per superare se stessa ad ogni occasione importante. La più ghiotta arriva il 7 settembre 1960, giorno in cui Roma olimpica è avvolta da una cappa di caldo eccezionale.

A quaranta gradi, sotto il sole, si disputa la staffetta dei 4x100m. E’ una gara a squadra, a dimostrazione che quasi mai si può vincere da soli. Al suo fianco  ci sono le amiche Martha Hudson, Lucinda Williams e Barbara Jones. Sono loro, le altre tiger bells, a passarle il testimone. Lei lo raccoglie e al traguardo ha di nuovo dietro tutto il resto del mondo.

Le compagne l’hanno aiutata a conquistarsi un posto inamovibile nella storia dello sport: Wilma, appena ventenne, diventa la prima donna americana a conquistare tre ori olimpici nella stessa edizione. L’impronta che la Rudolph lascia al traguardo apre il decennio più iconico di tutti: viene costruito il Muro di Berlino, il mondo trema per la Guerra fredda, impazzisce per i Beatles, idolatra Kennedy e Guevara. A fine decade, Neil Armstrong e Buzz Aldrin muovono i passi sulla Luna e le loro orme chiudono un’epoca irrepetibile.

Nel frattempo, nell’America pre-Vietnam, si consuma l’atto decisivo della lotta per i diritti civili. Le persone di colore si mobilitano, perché sia garantita la parità tra neri e bianchi. Ma prima che inizino le proteste o si compia il primo passo della lunga marcia di pace, in quelle giornate romane Cassius Clay ha ancora modo di corteggiare la sua amica Wilma. Il mitico Ali deve vedersela – fuori dal ring – con “l’espresso di Torino” Livio Berruti.

L’afroamericana Wilma sembra preferire il bianco Berruti. Entrambi due leggende, che alla fine di quella indimenticabile estate camminano per un breve periodo mano nella mano, facendosi fotografare spensierati, sicuri in quella Roma diventata isola felice.  Oasi in un mondo grigio e livido per la guerra fredda, ma ancora rosso per il sangue di guerre mai cessato. Un mondo ancora diviso a metà: bianco e nero.

Con la chiusura dei giochi e con l’autunno ormai incipiente, Wilma Randolph deve fare la valigie e ritornare a casa. È disposta suo malgrado a fare un passo indietro, consapevole che il mondo non è ancora pronto a raccogliere certe sfide. Incapace di arrendersi, è andata avanti. La sua vita negli anni a venire non è stata una vita da sogno, ma lei l’ha vissuta da autentica campionessa. Tenendo la schiena dritta, la testa alta, lo sguardo proiettato in avanti. Con le medaglie perennemente stampate sul petto e con i ricordi impressi nel cuore.

( foto copertina, archivio storico ANSA)
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