La musa in oro e la memoria dipinta

Maria ha otto anni ed è seduta nel salotto della sua bella casa di Vienna. Non sta giocando, visto che le piace fantasticare sulla donna che sarà. Ogni volta che immagina il futuro, sua zia Adele corre in suo aiuto, confortandola e spronandola. Maria l’ha già eletta come modello, rapita non solo dal suo fascino, quanto da quella personalità così magnetica, impossibile da catalogare. Adele è innegabilmente dotata di uno spirito non destinato a restare confinato entro le mura di una dimora prestigiosa e nemmeno entro i limiti del suo tempo.

Se Adele Bloch Bauer fosse stata la solita donna dell’alta società viennese di inizio novecento – quella ancora splendente, prima del tramonto – non avrebbe attirato l’attenzione di Gustav Klimt, diventando presto la sua musa.

Dal canto suo, se Adele Bloch Bauer fosse stata una donna convenzionale e attenta al giudizio altrui, non avrebbe commissionato a Klimt una serie di dipinti e, infine, il suo ritratto.

In posa, con le mani intrecciate e quel viso delicato bianco perla, la sua mente in realtà corre veloce. Inevitabile, visto che evidentemente sa leggere il futuro, avendo scelto un artista oggi osannato, ma all’epoca contestato e considerato un degenerato.

Klimt non è sicuramente personaggio comodo: è un uomo passionale, la sua personalità è controversa e realmente geniale da scatenare una “secessione” nel panorama artistico di Vienna prima, e una rivoluzione nell’arte europea e mondiale poi. Proprio per tutte queste ragioni, impiega quattro anni per ultimare il suo ritratto.

Nel quadro – realizzato in” pieno periodo aureo”- come ha detto qualcuno “Il corpo di Adele si fonde con quello sfondo d’oro, che richiama i mosaici tipici dell’arte bizantina”. Malgrado sappia leggere il futuro, la  musa ignora che si è già trasformata nella “donna in oro”.

Intanto, nel 1907 Adele Bloch-Bauer può finalmente esporre il proprio ritratto nel suo salotto, nella casa viennese che condivide con il marito Ferdinand – proprietario di un zuccherificio – e l’altra coppia della famiglia, cui è legata da un doppio vincolo. La sorella di Adele – Maria Teresa – ha infatti sposato Gustav Bloch – il fratello di Ferdinand – quindi per Maria, Adele è – a tutti gli effetti – una “doppia zia”, ma anche una seconda madre.

La stessa che la tratta sin da bambina come una piccola donna, alla quale promette di regalare quella collana tempestata di diamanti presente nel quadro, e che Maria ama tanto.

Purtroppo, Adele non vedrà mai la nipote indossarla il giorno delle sue nozze, come da lei ipotizzato. Muore nel 1925, stroncata prematuramente da una meningite, proprio quando la nipote si appresta a compiere nove anni.

Di colpo, però,  è il 1938. Maria ha da poco festeggiato il suo matrimonio con Fritz Altmann nella grande casa dei Bloch Bauer sulla Elizabethenstraß, la stessa dove negli anni si sono alternati compositori come Mahler e Strauss, scrittori come Schnitzler e Werfel, icone di un’epoca al tramonto come Freud.

Intanto, il lungo tramonto che indugia su Vienna, ex capitale dell’impero asburgico, si appresta a lasciare il passo ad una notte ancora più lunga. Proprio nel 1938 Hitler decide di “riprendersi” la sua patria, la stessa dove si è consumato in gioventù il breve sogno di diventare un artista famoso.

Hitler sa che i suoi connazionali rimpiangono il passato imperiale e fa leva su questo. Ha maledettamente ragione: al referendum del 12 marzo 1938 gli austriaci votano in massa per l’annessione alla Germania nazista.

Con l’Anschluss, la situazione precipita. Gli Altmann e i Bloch Bauer sono ebrei e per loro cominciano i tempi difficili: prima la deportazione di Fritz, poi gli arresti domiciliari per Maria. Parte della famiglia è riuscita a fuggire, scampando così al tragico destino che attende gli ebrei d’Europa.

Miracolosamente, anche Maria e il marito riescono ad emigrare prima che sia troppo tardi, scampando così alla Shoah. Con la fuga, Maria e i suoi famigliari perdono i propri beni, che i nazisti in tutta fretta sequestrano con il pretesto che lo zio Ferdinand – emigrato tempestivamente in Svizzera – abbia commesso degli illeciti di natura fiscale.

Si tratta di uno dei saccheggi più clamorosi della storia: i beni della famiglia Bloch Bauer trafugati – compreso il castello vicino Praga che ospitò il generale delle SS Heydrich – vengono spartiti tra i più alti gerarchi dell’élite nazista. Al punto che la collana di Adele promessa a Maria, finisce invece al collo della moglie del Feldmaresciallo Göring.

Ovviamene il ritratto di Adele non troneggia più nel salotto di casa, sulla Elisabethenstraß. Però è uno dei pochissimi beni che non fa gola ai nazisti; del resto, loro considerano Klimt un degenerato e quel lavoro è particolarmente “scomodo”, visto che la famosa “dama in oro” dell’artista è una donna ebrea.

Il dipinto non viene trasportato alla residenza del Führer al Berchtesgaden, non arreda le case di Himmler o Goebbels, e quindi non segue la sorte di tante opere trafugate agli ebrei e ancora oggi irrintracciabili.

Nel 1941 il ritratto di Adele Bloch Bauer viene ribattezzato in tutta fretta la donna in oro. Negandone il nome, i nazisti sperano di nascondere le origini ebraiche e la vera storia della donna del ritratto esposto alla galleria del Belvedere. La musa d’oro negli anni non solo diventa l’attrazione principale del museo viennese, ma si trasforma  – a furor di popolo– nella “Monna Lisa d’Austria”.

Di colpo, però, è il 1998. Maria Altmann vive da sessant’anni negli Stati Uniti. All’inizio risiede a New York, poi raggiunge parte della famiglia in California, dove insieme al cognato avvia il primo negozio che vende abiti di cashmere in Nord America. Ha ottantadue anni e lavora ancora nella sua boutique, quando grazie al libro del giornalista Hubertus Czernin – da subito gran sostenitore della Signora Altmann – inizia a diffondersi la vera storia del ritratto di Adele Bloch-Bauer.

Dopo la morte della sorella, rimasta ormai sola, Maria capisce che è arrivato il momento di confrontarsi con il suo passato: contatta Rudy Schönberg, giovane avvocato e nipote del grande compositore ebreo austriaco Arnold Schönberg, emigrato anche lui in America dopo l’ascesa del Nazismo.

La donna è a conoscenza che l’Austria sta iniziando a fare i conti con l’esperienza nazista, sotto pressione delle nuove generazioni. Al punto che il governo promuove una prima legge che riesamini vecchie dispute legate alla riconsegna dei beni trafugati agli ebrei sotto l’occupazione tedesca.

Come accade spesso, il vento del cambiamento si rivela più debole del previsto. Il governo austriaco non intende restituire alla Signora Altmann i dipinti di Klimt, considerati un patrimonio nazionale.

Lei però non si arrende. Tenta in tutti i modi di convincere il “Comitato austriaco per la restituzione”, mostrandosi disposta a scendere ad eventuali compromessi purché le autorità di Vienna ammettano pubblicamente che i quadri siano stati strappato illegalmente alla famiglia Bloch-Bauer durante il nazismo.

Il  Comitato rifiuta ancora, ma l’avvocato della Signora Altmann scopre di avere una carta in mano. Sebbene il diritto internazionale neghi la possibilità di intentare causa nei confronti di un governo straniero, la legge americana consente di citare in giudizio un paese se un ente sul suo territorio – nel caso dell’Austria, il Museo del Belvedere – svolge attività commerciali negli Stati Uniti, come ad esempio attraverso la vendita di stampe e cataloghi.

Maria e il suo avvocato ottengono la prima vittoria presso la corte distrettuale della California nel 2000, finché il caso approda alla Corte Suprema quattro anni dopo.

Il 7 giugno 2004, il giovane avvocato Schönberg convince anche i nove giudici più importanti d’America. Nonostante il successo clamoroso e contro ogni previsione – visto anche il mancato appoggio del governo americano – Schönberg sa che il tempo non gioca a loro favore. Maria ha ormai ottantotto anni, non ha molto tempo per continuare ad essere il simbolo di quell’epoca perduta, di quella famiglia che la storia – più che un oceano – ha tenuto lontana dalla propria terra.

Maria è l’unica testimone diretta ancora vivente, l’unica in grado di raccontare i fatti, l’unica – grazie anche al suo spirito e alla sua tenacia – che può influenzare una giuria, riportando l’attenzione su ciò che più conta davvero: l’aspetto umano per l’ingiustizia subita, incalcolabile anche di fronte a dipinti che valgono milioni di dollari.

L’avvocato tenta il tutto per tutto, scegliendo di ricorrere al collegio arbitrale in Austria. E’ la soluzione più folle, la più difficile, ma è la più veloce. Soprattutto, si rivela quella vincente.

Nel 2006 Maria sta per compiere novant’anni, quando per  miracolo – o forse solo per giustizia – i tre giudici si pronunciano in suo favore e ratificano la restituzione dei quadri, respingendo le pressioni e le richieste del governo austriaco, sconcertato di fronte alla prospettiva che la loro “Monna Lisa” lascerà per sempre il paese.

Prima di tornare negli Stati Uniti, Maria decide di vendere il quadro a Ronald Lauder, nipote della celebre Estée, a condizione che venga esposto perennemente al pubblico, mentre incarica Christie’s di curare la vendita degli altri quattro dipinti. Ne ricava una fortuna – più di trecento milioni di dollari – ma questo ormai non le interessa più.

A 90 anni la vita non poteva restituirle tutto ciò che le aveva tolto, però le ha consentito di dare una grande lezione al mondo, sintetizzata dalle parole del suo avvocato “dopo settant’anni, questo è uno dei pochi torti ai quali è stato possibile porre rimedio”.

Per certi aspetti, la storia di Maria Altmann è una delle tante, i torti subiti sono paragonabili a quelli di milioni di altri; ciò non toglie che abbiamo bisogno di ogni singola storia per capire e ricordare. Nel film Woman in Gold, Maria è interpretata dal premio Oscar Helen Mirren. All’inizio del film rivela al suo avvocato Randy Schönberg – interpretato dalla star canadese Ryan Reynolds – il suo timore più grande:

                “Le persone dimenticano, soprattutto i giovani”.

Alla fine, memore delle parole di sua zia “l’unico nemico è la paura”, dopo la vittoria in tribunale Maria decide simbolicamente di visitare un’ultima volta la vecchia casa, ormai trasformata in uno studio prestigioso. Lo fa ancora una volta a testa alta, con dignità e con l’immancabile tocco di regalità. Ciò che i nazisti non le hanno potuto portare via a prezzo di una serenità riconquistata in extremis, perché

riavendo ciò che era suo, ha donato alla sua famiglia un posto nella storia, e ha restituito alla storia per sempre la sua verità.

Nel 2011, l’avvocato Schönberg, grazie alla sostanziosa parcella guadagnata, ha già avviato un’attività specializzata nella restituzione di opere d’arte e beni privati. Maria ha invece fatto un’ultima donazione al Museo dell’Olocausto di Los Angeles.

Dove un giorno di dieci anni fa si addormenta senza risvegliarsi più. In pace, certa di aver fatto felice la zia Adele un’ultima volta. Ora la “donna in oro” può splendere davvero e per sempre.

 

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