Il paradiso a tutti i costi

Sono piombato alle Canarie nel mese di ottobre, dopo un viaggio di quattro ore. Qualcuno – uno steward, una hostess – avrà sicuramente annunciato il lieto evento, ma per la prima e forse ultima volta non ho prestato la benché minima attenzione alle cruciali fasi che precedono un sicuro atterraggio.

C’era il cielo da scrutare, e poi c’era il colore di quella terra dalla fisionomia distante anni luce dal suolo europeo. Così, sorvolando Fuerteventura avevo l’occasione di constatare finalmente di persona se esisteva o no il Paradiso.

Lungi dal definirla terra di esilio,  migliaia di connazionali preferiscono confondere l’arcipelago delle Isole al largo delle coste marocchine con il Paradiso. Un atto da non condannare, semplicemente perchè quella terra li ha accolti. Lì si trovano bene e non c’è bisogno di ricorrere ad altri termini, in un decennio – quello che sta per concludersi – segnato da parole inedite e che magari accennano vagamente all’inferno.

Parole disgraziate, sconosciute e talvolta intrise di sangue, anche quando le leggi sui giornali o finiscono sulla bocca di esimi professori che però conservano un viso brutto e cattivo.

Quelle parole fanno male a tutte le generazioni. Per questo, anche se per pochi giorni, anche io – a Fuerte – ero tenuto a dimenticare lo spread, a non pensare al deficit, agli esodati o alla spending review. Alle Canarie – mi dicevano – si imbocca una strada a senso unico e si spalancano porte su un altro mondo. Sole e caldo dodici mesi su dodici, piogge rare e “nane”, vento selvaggio che si fa apprezzare perché regala onde ai surfisti e spezza la frusta del sole a latitudini non distanti dall’Equatore.

Stavo per toccare il Paradiso con un dito, e stavo per farlo in un modo del tutto inedito: toccando terra entro pochi secondi, quanto bastava al capitano del mio volo per ultimare la sua manovra.

Mai come prima, il mio arrivo in una terra sconosciuta si preannunciava promettente. Risolte le formalità, ritirati i bagagli, spalancatesi le porte dell’aeroporto, volevo davvero salire sul taxi rimediato in pochi secondi e vedere da vicino cos’era e com’era il Paradiso.

Mi è bastato un attimo per capire che quello era il Paradiso degli altri. Il Paradiso, per come la vedo io, non ti accoglie con un tassista che strombazza il clacson e alza il volume della radio quando becca un pezzo reggaeton. Non dovrebbero vedersi le gocce di pioggia sul tergicristallo e tu non dovresti fare dribbling tra ambulanti e tavolini per ricavarti il tuo pezzo di tramonto.

Per un’infinita serie di ragioni non ho imboccato la strada a senso unico che mi aspettavo. Ma non è necessariamente un male: mi restano bei ricordi, mi resta l’Oceano che volevo e un pezzo  di deserto modellato dal vento a pochi passi dal chiringuito che sfornava cocktail salutari per l’umore. C’è stata poi Lanzarote – nei giorni a venire – e l’ho agguantata con una barca, quell’isola dal paesaggio lunare, che dà il meglio di sé quando giorno e notte si danno il cambio.

Nell’isola che c’è e realmente esiste vi è stato un tempo per andare, e forse ci sarà un tempo per tornare: ma tutto questo poco conta, nel momento in cui scopri che non ci sarà mai un tempo per restare.

Quel viaggio è stato fondamentale, un regalo che ho davvero fatto a me stesso, istruttivo come pochi. Ho finalmente capito che, tra mille ambizioni, non sono animato da quella di trovare un Paradiso in terra o di pretenderlo a tutti i costi. Col tempo ho dato credito alla mia teoria, che sono i momenti – più che i luoghi – ad essere fatidici, propizi o fecondi.

Ci sono istanti non prevedibili, unici, che vanno sentiti e mai calcolati. Ci penso oggi, chiudendo la pagina di questo sito dove trovi le “10 regole d’oro” o i “38 segreti” per lavorare in ogni parte del mondo e diventare un nomade digitale. In rete la rincorsa verso il Paradiso in Terra è davvero frenetica: prosegue su altri lidi, dove addirittura s’impone a chi legge l’obbligo – assurdo – di visitare almeno cinquanta paesi nel Mondo, perché altrimenti si rischia di vivere infelici e non morire felici.

Una bizzarria, un paradosso: se si promette il Paradiso, o si tenta in tutti i modi di raccontarlo,  la morte naturalmente è un concetto bandito. Viene infatti rimossa dalla mente, tenuta nascosta, al punto che si trasforma nell’unico tabù realmente possibile. Invece, il sipario può chiudersi per sempre anche in un angolo di Paradiso.

E’ successo a tanti ed è accaduto anche a Zach, ragazzo americano ventiseienne. Zach Warren Hegelmeyer è un nome lungo e che non dice nulla a moltissimi,  ma identifica una vita piena, sintetizza l’esistenza di un giovane uomo che veniva dalla California e che eccelleva in tanti sport come il baseball e il Surf. Per tutte queste ragioni, per lui probabilmente il Paradiso coincideva con le coordinate di Bali, Indonesia.

Purtroppo, proprio tra le sue onde, nell’Oceano Indiano che aveva ansia di esplorare a modo suo, Zach ha imboccato una strada a senso unico e senza ritorno.

Nel Paradiso che aveva scelto, Zach ha vissuto il suo ultimo, grande giorno, mentre l’Oceano decideva di vincere ai dadi contro di lui, negandogli l’avvenire. La storia di Zach stride con le cartoline virtuali che promettono luoghi da sogno, e ci ricorda che le regole d’oro per aprire le porte del Paradiso sono effimere, perché queste ultime possono chiudersi in un attimo e indipendentemente dalla nostra volontà,

Cosa fare, dunque, se poi viene negato il Paradiso con un finale tanto amaro? Occorre fermarsi e ricordarsi che nella vita di ognuno è fondamentale progettare un viaggio che continui e che non si arresti, finché non arriva il momento.

Di uomini e donne venuti e andati via, resta l’ eredità e quell’eredità ha peso – come è accaduto per Zach – se lascia filtrare un profumo di libertà, un’essenza – se vogliamo – di forza e vitalità che possa servire da esempio per chi rimane.

Proprio così: grazie al diario di Zach ritrovato dopo la sua scomparsa, la fidanzata Aubrey ha deciso di portare avanti il suo sogno: lottando contro il lutto inaspettato, ha rimesso al mondo un Toyota Dolphin del 1985 e da quel momento vive e lavora on the road, pronta a superare le mille difficoltà che l’hanno segnata.

Riportandolo alla vita, ha rianimato quel sogno condiviso a lungo, impedendo che morisse per sempre.

La storia di Aubrey e Zach non ha nulla che ricordi il Paradiso in Terra: ma proprio per questo la scelta di Aubrey è l’immagine a cui aggrapparsi, perché reale, perché non è frutto di una promessa fatta a  milioni di persone e da mantenere a tutti i costi. Del resto la vita di chi resta spesso si trova magicamente spinta da una forza misteriosa che forse arriva da dentro o forse – chissà come – piomba misteriosamente dall’alto.
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