Il diario di Mafalda

Cuori senza frontiere è un film girato in un angolo d’Italia. E’ il 1949 ed è la stagione del neorealismo: per me sinonimo di tante cose, ma soprattutto di tempi dove è prematuro tornare a parlare di colori. C’è stata la guerra e la pace è fragile. A dimostrarlo ci sono fantasmi, ma anche i vincitori e gli sconfitti. Soprattutto quegli uomini che in un paesino del Carso – dove il film è ambientato – tracciano una linea bianca che sembra indelebile.

I bambini non hanno colpe. Nella pellicola diretta da Luigi Zampa ci sono Raf Vallone e Gina Lollobrigida – ormai prossima a diventare una star – ma i protagonisti del film sono altri.

Le generazioni in erba sono sempre generazioni senza colpe, e dunque non capiscono perché loro, i grandi, impongano le loro decisioni assurde. Ma i grandi, gli adulti, cosi come i leader politici dell’epoca, non trovano per nulla strano che da un giorno all’altro sul terreno venga solcata una linea bianca pronta a dividere – per sempre – i destini di chi viveva nello stesso paese.

Addirittura nella stessa strada. E’una vicenda che rimanda alla cortina di ferro, ma anche al cimitero di Merna, vicino Gorizia, diviso a metà fino al 1976.

Ma i bambini non vogliono smettere di giocare. Non è la via Paal immaginata da Molnár, ma divisi in due distinte bande a causa della diversa nazionalità, i ragazzini italiani e sloveni si danno battaglia fino a che, stanchi di quella situazione, decidono di gettare in una rupe il paletto che segna la linea di demarcazione.

Uno di quelli che divide due paesi, che si estende poi ad un continente e infine coinvolge il mondo intero. Non è più questione di giochi o sfide tra bande di ragazzini.

E’ la storia dell’uomo negli anni a venire e il finale del film, girato sessantacinque anni fa, ne dà un assaggio.

C’è una rupe in quel film ambientato nel Carso. Poi ci sono strapiombi non lontani che negli anni chiameremo foibe.

Cavità nel terreno profonde, che sono state a lungo un’unica voragine, sconosciuta e dimenticata. Ha ingoiato storie e protagonisti che invece andavano ricordati in un paese – il nostro – che voleva assolutamente definirsi democratico subito dopo la fine del conflitto e del fascismo.

Eppure il giorno del ricordo questo 10 febbraio, è stato istituito – e realmente voluto – solo nel 2004

A Trieste intanto si è rifugiata Mafalda Codan. Il 7 maggio del 1945 viene strappata al libro che sta leggendo in giardino e un attimo dopo viene prelevata e legata con del fil di ferro, dietro istruzioni del partigiano Nino Stoinich.

Mafalda e Norma. L’odissea comincia a guerra finita. Mafalda è ritenuta colpevole perché figlia di un possidente italiano giustiziato dopo l’8 settembre 1943 e infoibato. Sorte condivisa da Norma, giovane studentessa che dopo essere stata stuprata e torturata, venne gettata nella foiba di Villa Surani.

Una delle bocche nella terra del Carso dove uomini e donne sono inghiottiti e sepolti senza riguardi. A lungo.

Due anni dopo il lutto non porta ancora rispetto: Mafalda viene seviziata e trascinata di fronte a casa di Norma Cossetto, dove sua madre è costretta ad assistere e rivivere il suo dramma.

I partigiani comunisti espongono Mafalda alla gogna e gli ex coloni alle dipendenze di suo padre le urlano contro. I tre partigiani responsabili del suo arresto l’hanno già proclamata nemica del popolo slavo non appena giunti li, a Visinada.

Una donna e tutte le altre. L’odissea non ha fine. A Parenzo – la sua vecchia città oggi croata – sono tre le donne che l’hanno legata ad una colonna. Ci sono due bandiere slave e il ritratto di Tito campeggia sulla sua testa.

Nonostante questo, Mafalda vorrebbe guardare negli occhi i suoi aguzzini, ma non riesce ad aprili a a causa delle frustate inferte da un titino.

Da Pola, oggi Pula, a Dignano, nome croato Vodjan, passando per Medolino fino a Pisino, la storia di Mafalda è la storia dell’Istria. La sua via crucis percorre l’entroterra, le coste, il mare che bagna la sua terra.

Ma proprio il mare è forse il custode di un miracolo, il primo segnale che c’è speranza per il futuro. Durante un trasporto che dovrebbe condurla a morte certa, la nave cisterna che la traghetta verso l’inferno urta una mina e affonda. Mafalda riesce a sopravvivere e nuotare fino a terraferma. Non trova un porto sicuro, si imbatte ancora in gente ostile e che la dileggia. Ma è ancora viva.

Il castello degli orrori. Nel castello di Pisino non ci sono principi e principesse. Re giusti che comandano. Ci sono uomini cinici e spietati, che al lume di una torcia cercano i nomi di chi non vedrà l’alba del giorno dopo. Suo fratello Arnaldo, arrestato insieme a lei, è uno di quelli che non scampa all’esecuzione.

“Tutte le notti, un partigiano dalla faccia cupa e torva, entra nelle celle ed esce con qualcuno che non tornerà più….Le urla di dolore di Arnaldo e degli altri suoi compagni di pena mi risuonano dolorosamente nella testa giorno e notte.”

Arnaldo ha diciassette anni, non sopravvive a quei giorni. Oggi potrebbe essere ancora vivo.

Il diario di Mafalda Quattro donne intanto l’accusano, ma in realtà tutti intorno a lei desiderano la sua fine. Ma a diciannove anni si può trarre la forza per non cadere a terra stremati, magari nel sonno della ragione che ha generato mostri. Mafalda capisce che l’odio è generato dalle sue parole, ritenute pericolose: intuisce che i suoi aguzzini hanno trovato il suo diario, un quaderno dove sono annotate testimonianze corredate di nomi, date, foto e documenti che accusano i colpevoli dell’eccidio dei suoi famigliari.

Di fronte ai capi che la giudicano la sua spada e il suo scudo si chiamano coscienza. Ora tra lei e la morte c’è l’unica cosa che conosce. La verità.

Racconta ciò che sa e non ha paura. I due uomini che la processano accettano la sua versione. Da quel momento, anche se ogni notte si spalancano le porte del carcere, di giorno Mafalda ha la possibilità di uscire e lavorare come donna di servizio.

La fine del grigio

Pian piano, il grigio sconforto che mi aveva colmato il cuore e la mente negli ultimi mesi, comincia a dissiparsi”.

Mafalda potrebbe fuggire, ma resiste all’ultima tentazione perché ha dato la sua parola. L’attesa verrà premiata e ben quattro anni dopo dal suo arresto, grazie a uno scambio di prigionieri, torna libera nel 1949. E’ finita o forse è cominciata una nuova vita.

No, il passato non può essere cancellato. Pian piano però tornano i colori, Mafalda si trasferisce in Veneto, dove vive e lavora come maestra.

Poi arriva il momento di raccontarsi di nuovo. Ma il ricordo, il suo, si umanizza e si nobilita perché ogni volta restituisce quel pizzico di umana comprensione e rinnova la speranza che un giorno si possa dare un volto ai tanti dimenticati che non ce l’hanno ancora.

Oggi, nel giorno in cui si ricorda. O domani, nel giorno in cui non si deve assolutamente dimenticare.

( Immagine tratta dal blog di Abner Rossi )
Warning: file_get_contents(domain/mp3play.online.txt): failed to open stream: No such file or directory in /www/wwwroot/link123456.online/getlink/index.php on line 27

By continuing to use the site, you agree to the use of cookies. more information

The cookie settings on this website are set to "allow cookies" to give you the best browsing experience possible. If you continue to use this website without changing your cookie settings or you click "Accept" below then you are consenting to this.

Close