Emma nel paese ritrovato

Emma percorre a grandi passi via Casanova con i capelli raccolti da una grande treccia e con lo scialle sullo spalle. Si sente animata da una sensazione strana: più di tutto, più di qualsiasi altra cosa, sente montare dentro di lei un’incredibile scarica di adrenalina. Forse per la stessa energia a cui non sa dare nome o spiegazione, sopraggiunge un senso di vertigine che la induce a rallentare. Questo contrattempo le impedisce di assumere un’andatura troppo spregiudicata, mentre si affretta- senza sapere il perché – lungo via Casanova.

Quella strada era popolata di voci e volti, che si rincorrevano continuamente nella sua testa, mentre una foschia balorda – sempre più fitta col passare dei minuti – tendeva ad abbassarsi fino a schiacciare la pianura nei dintorni. Era una tipica sera d’autunno, quella che abbracciava Emma rapita prima dal suono del suo respiro e poi da un rumore di passi che tambureggiavano sull’asfalto.

Difficilmente Emma provava paura. Quella sera si era sentita come posseduta dal richiamo della strada e delle luci, dalla vivacità di quelle case dai colori così curiosi e così diversi. Per questo era uscita da sola e a passo svelto, prestando attenzione di tanto in tanto al braccialetto colorato che portava da un po’.

A ciascuna facciata del suo villaggio riusciva ad attribuire un volto più che un nome, ma con il tempo anche questa sua capacità andava affievolendosi. Si trattava perlomeno di persone che incontrava quotidianamente, ma che scomparivano dalla sua mente giorno dopo giorno, notte dopo notte.

A proposito di notti: qualche giorno prima aveva sognato alcuni dei suoi vicini. Le avevano detto, in quel sogno, che presto sarebbero andati alla ricerca della primavera, ovunque si trovasse.

In quell’istante Emma non ricordava il sogno ed era una benedizione: si sarebbe sentita ancor di più circondata e assalita dall’autunno. Già, quella sera nutriva il dubbio che fosse l’unica ad essere rimasta in quelle vie buie, spazzate dal vento che andava e veniva, capace di raccogliere le foglie sulle quali dal nulla si formavano muri di nebbia. Come pareti che sorgono all’improvviso, a tratti impenetrabili e a tratti evanescenti.

Le sue gambe sono leggere come non mai, capaci per la prima volta di rispondere ai suoi comandi. Ma di fronte all’ennesimo muro di nebbia che si agitava al di sotto del lampione, le sue mani cominciano a perlustrare viso e capelli come se fossero l’ultima cosa cui aggrapparsi.

Le mani di Emma sembravano mani diverse da quelle delle “altre”, da quelle donne nate nei decenni seguenti e cresciute all’ombra di elettrodomestici più alti di loro. Negli anni di infanzia avevano impastato, lavato, cucito. Durante la guerra si erano rivelate fondamentali per nascondere viveri o per lavare piatti nei quali gli ufficiali nazisti si divertivano a giochicchiare con gli avanzi, al cui solo pensiero tutti gli altri – in quel lungo inverno – versavano lacrime amare. Diventata moglie e madre, quelle mani le erano servite per fare di buono tutto quello che è umanamente pensabile.

Emma apparteneva ad una generazione – l’ultima – che poteva permettersi di misurare la propria dignità senza dare importanza all’aspetto esteriore. Eppure, ora tutto aveva smesso di avere senso.

Davanti alla vetrina di un negozio che stentava a riconoscere, era emerso il bisogno di soffermarsi sul proprio aspetto, di guardarsi per davvero e comprendere come si fosse trasformata nel corso degli anni.

Le mani sul viso e il riflesso del vetro sentenziavano che la vecchiaia era giunta in un baleno. Come era potuto accadere? Quando era successo? Per una che non aveva mai dato troppa importanza al proprio aspetto, le domande si rincorrevano veloci e fameliche di risposte, pronte ad azzannarsi come bestie feroci pur di prevalere nella sua mente.

Ciò che la circondava sapeva di autunno inoltrato e non le era di nessun conforto: anche l’enorme pianta rampicante che d’estate avvolgeva una di quelle case dalle persiane verdi era scomparsa per sempre. Le foglie avevano subito il suo stesso destino: erano diventate gialle in un attimo e si erano arrese; anche se, a dirla tutta, sulla pianta ne rimaneva attaccata ancora qualcuna.

Emma amava le piante, ma aveva curato troppo bene il proprio giardino, l’orto e le sue rose per non sapere che prima o poi il vento – qualsiasi fosse la provenienza  – le avrebbe costrette a cedere. Era stata una donna tenace e ostinata, tanto che ad ogni cambio di stagione le sembrava di assistere all’esibizione dell’ultima foglia gialla che si concede un’ultima danza prima di finire per terra.

Quel volteggio da giovane le faceva pensare alla sua futura vecchiaia e – per un attimo – all’inevitabile epilogo: lei avrebbe fatto di tutto per andarsene come la foglia danzante, che pur essendo costretta ad accettare la fine, non avrebbe mai rinunciato alla propria dignità.

“Emma, non ti allontanare. Tra poco è tempo di rincasare” Il rumore dei passi di prima si era incarnato nella figura di una donna giovane e slanciata, con i capelli rossi.

Quelle parole le ricordavano una delle cento, mille, infinite raccomandazioni di quando era bambina. Emma però non capiva perché a farle fosse sua sorella.

“ Raffaella, perché mi dici questo? Tu sei la sorella minore, non devi dirmi cosa devo fare.“

Non aveva avuto risposta. La luce del lampione aveva tremato per tutto il tempo, ma Emma no. Rimaneva ferma nella sua posizione e continuava a specchiarsi. Sua sorella aveva soltanto qualche anno in meno: ma se era davvero così, come si poteva spiegare una simile differenza tra le due? Perché il tempo le aveva trattate così diversamente?

Emma non sapeva cosa pensare: inquieta di fronte al tempo che si faceva beffe di lei, aveva cominciato a camminare in tutte le direzioni possibili prima di sbattere contro l’ennesima vetrina. A contatto con il vetro freddo e intriso di umidità, con la fronte attaccata contro la sua superficie, e gli occhi chiusi, aveva cominciato ad imitare una marcia.

“Apri gli occhi. Qui non si deve aver paura”

“Ma io qui non sono a casa mia. Non è vero?”

La donna dai capelli rossi l’aveva tranquillizzata, ma soprattutto l’aveva rispettata, non negando l’evidenza.

“Io ho vissuto in tanti posti diversi e ho scoperto che in ciascun luogo possiamo costruire un pezzo della nostra casa. Di quella che ci portiamo sempre dietro e dentro di noi”

Emma la osservava, ammirandone la gioventù e la saggezza.  Con la nebbia che si sollevava, si convinceva sempre di più che quella donna non poteva essere sua sorella. Si fidava di lei, anche perché era sicura di conoscerla in qualche modo, malgrado non ne ricordasse il nome. Ma questo le era capitato tante altre volte ed era certa che fosse normale. Che capitasse a tutti. D’altronde, non aveva mai avuto dimestichezza con i nomi, neanche da giovane…

 

….Via Casanova esiste davvero ed è a Monza. Nel cuore della Brianza e su iniziativa della cooperativa La Meridiana è stato voluto ed in seguito progettato il primo villaggio destinato ai pazienti affetti dal morbo di Alzheimer.

Lo chiamano il paese ritrovato, perché qui non si soffoca l’eco dei ricordi altrui e non si negano le speranze per l’avvenire. Il paese ritrovato nasce con lo scopo di creare una comunità di persone che, non potendo più vivere da sole nelle proprie abitazioni, possano ritrovarsi in un luogo sicuro dove poter continuare a condurre una vita dignitosa, godendo delle cure e delle attenzioni di persone altamente specializzate.

Vale a dire infermieri ed operatori qualificati che, grazie ad uno speciale periodo di addestramento, si trasformano in commessi, baristi, parrucchieri e animatori capaci di interagire con individui affetti da una patologia che in termini di imprevedibilità e aggressività non fa sconti a nessuno.

Sulla scia di quanto accade da trent’anni nella città olandese di Hogeweyk – primo “paese ritrovato” al mondo – il personale non indossa alcun camice bianco. Inoltre, il villaggio è costruito interamente su misura per coloro che – malgrado la malattia – possono ancora condurre una vita quotidiana in autonomia, e quindi godere di libertà entro i limiti consentiti.

Sorto su un’ area di 14,000 metri quadrati, nel paese ritrovato ci sono case di colore diverso che ne facilitano identità e riconoscimento. C’è spazio a sufficienza per muoversi, incontrare gente e parlare. Già, a tutti gli abitanti del paese ritrovato viene ancora data la possibilità di fare la spesa in un  minimarket, di sedersi in un cinema per divertirsi, di pregare e cercare conforto in una chiesa.

La tecnologia oggi aiuta a contrastare – grazie a un sistema di sorveglianza discreto ed al braccialetto al polso – il fenomeno noto come wandering, dato che smarrimento e disorientamento del paziente sono tra i principali rischi correlati all’insorgenza di una malattia progressiva.

Come è accaduto – o potrebbe essere accaduto – ad Emma in una sera d’autunno. Certamente una donna come Emma è esistita per davvero. Magari non è mai stata in via Casanova o non la ritroveremo a passeggiare da quelle parti, ma il suo cammino è stato ugualmente importante. Al punto che non va dimenticato.

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