Dai reattori ai riflettori

Ho conosciuto Olga quando era una ragazzina bionda e con gli occhi azzurri. Era estate, erano gli anni novanta, ma per lunghi momenti quella ragazzina venuta dall’Est sembrava non accorgersi che a pochi passi da lei il mare s’increspava o si addolciva a seconda del proprio umore. Nonostante amasse giocare, si rifugiava spesso in un silenzio che oggi ricordo assordante perché faceva realmente parte di lei.

Il silenzio di Olga è un silenzio difficile da descrivere, ma probabilmente è entrato di diritto nel patrimonio genetico di tanti bambini cresciuti o nati in una zona circoscritta nel Nord dell’Ucraina del post Chernobyl. Olga veniva da una cittadina dal nome mai specificato dalla sua famiglia affidataria, forse perché ritenuto un dettaglio trascurabile. Lei veniva da Chernobyl e non occorrevano altre precisazioni, per coloro che si occupavano di lei due mesi l’anno.

Figlia di una nazione che aveva meno dei suoi anni, quella ragazzina era sicuramente slanciata in altezza più di quanto non lo fosse nei confronti del proprio avvenire: trascorse un altro paio di estati in Italia e ogni volta tornava nel suo paese alla fine di agosto.

La famiglia italiana la trattava con affetto, sempre con la massima discrezione al punto da non invadere i suoi spazi. Gli ultimi giorni in sua compagnia – puntualmente – erano dedicati allo shopping e alle frequenti visite nei supermercati della zona. “Riempiono la valigia al limite – raccontavano mia madre e le zie – con ogni ben di Dio” Le stesse fonti a me molto vicine ripetevano che Olga andava pazza per il parmigiano e per questo oggi tento di immaginarla seduta a tavola, al rientro a casa, pronta a dividere quel bene tanto prezioso con la sua famiglia.

Finalmente grazie all’ immaginazione la incastro in una visione inedita: quella di ragazza felice che ride, capace di andare oltre i soliti sorrisi fugaci e velati. Non ho molti altri ricordi, probabilmente qualcuno mi inganna, ma addebito la mia incapacità di stabilirlo alla mia superficialità di  adolescente che in fondo aveva tutto.

Oggi Olga potrebbe avere un figlio, un bambino nato in quella zona dell’ Ucraina, biondo e con gli occhi azzurri come lei. Ho conosciuto Vladik grazie alla trasmissione de Le Iene andata in onda il 21 novembre del 2017, dedicata ai residenti dell’area a ridosso della centrale nota per il più disastroso incidente nucleare della storia e ben prima di Fukushima.

Vengo a sapere che all’età di sette mesi il corpicino di Vladik è cambiato, mostrando un gonfiore “grosso come una scatola di fiammiferi” all’altezza della colonna vertebrale, sintomo di un male che da quel momento ha pregiudicato lo sviluppo delle sue capacità motorie. Sono trascorsi due anni, e oggi ci sono altri frammenti, altre istantanee che mostrano Vladik in piscina o mentre prova a stare in piedi grazie a dei tutori. Vladik è ancora vivo e ha ancora voglia di scherzare: lui è così, solare e incurante di tutte le sofferenze patite.

Mentre lo guardi Vladik ti fa dimenticare il suo male, così come tutti i mali del mondo: perché continui ad essere la prova vivente che questo è effettivamente possibile deve essere sottoposto a controlli periodici, dopo che il suo tumore è stato asportato.

Un’operazione possibile grazie ai quarantamila euro raccolti dalla Onlus italiana Mondo in Cammino, oggi attenta ai progressi del bambino in una nuova fase della sua vita. Vladik può nuotare e scherzare in piscina perché c’è qualcuno che l’aiuta.  Riesce a saltare perché c’è un operatore dietro di lui, ce la fa a stare in  piedi – per qualche secondo – perché ci sono dei tutori che lo sorreggono.

Il nuovo capitolo della vita di Vladik – che a meno di quattro anni sembra averne vissute almeno il doppio – prevede una lunga riabilitazione che attualmente procede a singhiozzo. L’associazione italiana presieduta da Massimo Bonfatti continua a cercare un centro privato in Ucraina, in modo da evitargli lunghe trasferte all’estero o in città lontane.

Vladik continua ad avere gli stessi occhi azzurri della madre Anna. Non lontano da lui vivono tanti bambini e tanti ragazzini ormai adolescenti, figli di madri che tentano in tutti i modi di nascondere la loro inquietudine grazie a sorrisi che però sembrano partire a comando, mentre invece gli occhi suggeriscono tutt’altro.

Vladik e tutti gli altri sono figli di madri diverse e che comunque li amano incondizionatamente. Ma ognuno di loro sembra essere anche figlio unico e prediletto di quel reattore n. 4 inaugurato nel 1983 ed esploso soltanto tre anni dopo per negligenza, incompetenza. Perché le barre di controllo non erano progettate a dovere.

Ci sono ragazzini che continuano a nascere e crescere malgrado tutto anche nei decenni successivi al 26 aprile 1986. Una data sinonimo di buio, associata ad una notte perenne più che ad un giorno pieno di sole, destinata a rimanere nella storia per un’esplosione avvenuta ventiquattro minuti dopo l’una di notte e che ha causato danni incalcolabili, seminando morte sin dai primissimi istanti.

Immediatamente la morte è diventata destino comune, come conveniva tragicamente in tanti cicli storici dell’Unione Sovietica, gigante morente ormai giunto nella sua ultima frazione di vita. In quegli stessi attimi di caos totale e cieca propaganda, il governo di Mosca recluta migliaia di militari e seicentomila cittadini affinché si possa liquidare la faccenda senza dare nell’occhio, dando invece prova di un’apparente e sciagurata efficienza.

A distanza di anni, quei seicentomila uomini li ricordiamo ancora come i liquidatori, uomini privi di protezioni adeguate e incaricati di liquidare la portata distruttiva delle scorie. Vittime sacrificate per l’ultima, tragica volta e in nome – neanche a dirlo – del bene collettivo. Oltre a loro accorrono sul posto ventotto vigili del fuoco, che dalla vicinissima città di Prypjat vengono inviati sul luogo del disastro. Cammineranno sui tetti neri e molli come la pece, abbattendo pezzi di grafite che pendono dal tetto coperto di bitume.

Quei ventotto vigili del fuoco moriranno tutti nel giro di breve tempo, molti prima della nube radioattiva che non si dissipa e cavalca il vento nei giorni a seguire, in tutte le direzioni possibili.

La nube malefica agguanta la Bielorussia e il Baltico. Poi, piegando a nord ovest, arriva a coprire i cieli della Scandinavia e del Regno Unito. Cinicamente, sfrutta ogni variazione della pressione atmosferica e riesce a capitalizzare ogni corrente, giungendo in Francia, in Svizzera, in Italia e nei vicini Balcani. Fino al 10 maggio di trentatré anni fa quella nube non conoscerà soste o pause, incurante di albe o tramonti.

Anche a Prypjat, intanto, a pochi chilometri dalla centrale, è arrivato il 2019. Gli isotopi radioattivi nel suolo continuano a contaminare il cibo: in quest’area dell’Ucraina settentrionale gli alimenti venduti ai bordi della strada o coltivati nei campi non hanno sapore e non hanno colore.

La radioattività è altissima, il cesio è sopra i livelli di guardia: nelle scuole e nelle case, i bambini ingeriscono veleno perché l’alternativa è lo stomaco vuoto.

C’è Yuri Bandazhevsky, scienziato bielorusso in passato arrestato per le sue continue denunce, che incita ragazzini dal viso spento e dal cuore malato, a resistere, nonostante molti soffrano di patologie che affliggono sistema cardiaco ed endocrino. Alla morte si può fuggire solo scappando da terre che sembrano maledette, ma che sono amate e rimpiante da chi vi abita.

Nessuno vuole andare via, e dal futuro che sembra non esistere, emerge un presente fatto di promesse e indifferenze che hanno un taglio istituzionale: a causa della guerra in Donbass, il governo di Kiev ha tagliato gli ultimi fondi alle mense scolastiche.

Tradotto cinicamente, ma doverosamente in cifre, si parla di 60 centesimi al giorno per ogni alunno. Bastano 60 centesimi in quell’area dell’Ucraina perché ogni ragazzino possa mangiare cibo sano almeno una volta nell’arco della giornata.

Invece le mense talvolta restano vuote e quando non lo sono, vengono rifornite dai genitori degli scolari che però possono offrire soltanto alimenti avvelenati. Sono somme ridicole e imbarazzanti, quelle denunciate dalla preside intervistata nel reportage andato in onda un anno e mezzo fa, e per questo ancor più difficili da digerire. Fortunatamente c’è stata quella denuncia e per questa ragione, sono piovute donazioni che Mondo in Cammino oggi filtra e dosa sapientemente perché quei ragazzini possano mangiare cibo che li aiuti a crescere e a liberarsi definitivamente dal veleno.

Il veleno più letale, quello che attanaglia cuori e speranze, ma che non ha ancora debellato la possibilità che possa filtrare luce attraverso quella nube ancora sospesa.

Per sperarlo, si può tornare indietro e sentire Vladik che canta e non smette mai di parlare. Per crederlo, occorre uscire dai confini e immaginare un futuro diverso per chi potrebbe non averlo. Per realizzarlo, si deve agire donando.

Intanto intorno a Chernobyl, nella famigerata zona di esclusione, sono state avvistate specie di mammiferi e uccelli mai notati prima. La ritengo una notizia piovuta su di me non casualmente,  dato che serve a ricordarmi che nessuna terra è maledetta, che nessuna terra merita di essere stigmatizzata o bollata come l’anticamera per l’Inferno.

Esiste la possibilità – ancora remota – che un giorno si torni a respirare aria limpida d’estate anche da quelle parti. La stessa che Olga respirava qui, lontano da casa sua e a pochi metri da me.

Non è un caso disperato e fortunatamente non bisogna evocare miracoli, ma pretendere cure e interventi possibili, riportando la luce dei riflettori su una terra dove un tempo svettavano soltanto reattori.
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