Cronaca dell’ultimo derby

Il campo da gioco non è il massimo: dopotutto è l’Appelplatz, il luogo che segna l’inizio di una giornata come tante altre, ad Auschwitz. Tutti gli altri giorni della settimana sono convulsi, giorni confusi e interminabili, ma la domenica fa eccezione. Non si lavora e si riposano anche i cani righiosi: la domenica è un giorno speciale e anche qui, alla periferia dell’inferno, si gioca una partita di calcio.

E’ una domenica di un anno imprecisato, quella che ospita l’incontro tra ebrei e gentili, ovvero uomini che secondo la lingua yiddish hanno una fede diversa.

In fondo, è un vero e proprio derby, perché soldati e prigionieri, innocenti e carnefici, vivono a stretto contatto tutti i giorni.

Nessuno può scansarsi quando il vento che trasporta l’odore di quei camini s’impadronisce dello spazio circostante; tuttavia, gli uomini con la divisa a strisce e la stella gialla sembrano ignorarlo quando, ai lati del campo, si accorgono di una convocazione inaspettata.

Nunberg,  l’idolo di un’intera generazione di ragazzini polacchi che l’hanno ammirato allo stadio Hakoah, sta per entrare in campo. Si dirige verso la porta attendendo il calcio d’inizio.

Non oso immaginare un arbitro che rimanga imparziale durante la partita, che sanzioni il pubblico e le irregolarità di un match che, spontaneamente, conduce alla vittoria dei “gentili”:

Ma se da un lato una sconfitta può passare inosservata, un idolo non subisce lo stesso destino. Nunberg è stato il miglior uomo tra i pali di un’intera nazione, ma i giorni di gloria si sono consumati come la sua carne.

I suoi ammiratori s’illudono, sognano per pochi secondi, prima che tutto svanisca nell’aria ancor prima che il fumo dei camini si disperda di nuovo : Nunberg, il grande campione alto un metro e ottanta, è ormai un Muselmann,  un uomo senza più vita sul volto. E’ talmente provato e denutrito, che l’inedia ha lasciato solo uno strato di pelle a custodire le sue fragili ossa.

Viene comunque convocato, perché gli ebrei hanno ancora bisogno di lui un’ultima volta contro i più robusti e possenti avversari:

Il risultato finale è certo, ma ignote sono le proporzioni della vittoria dei “gentili”; ma questo non conta, perché è l’ultima partita del grande campione. Perché questo campo da gioco domani tornerà ad essere l’ Appelplatz, il posto dove ci sono esseri umani immobili e col capo chino, disposti a rimanere a lungo in piedi prima  che venga pronunciato il loro numero tatuato.

Per gli uomini con l’uniforme grigia gli untermenschen, infatti, non hanno bisogno di un nome. Non lo meritano neppure.

I giorni e le ore corrono, il tempo sta per svelare tutto, ma qualcuno non fa in tempo a salvarsi.

Il 31 gennaio 1944 è una mattinata come tutte le altre: è’un’altra giornata che comincia all’Appelplatz dove tutti sono in fila e immobili, al gelo e sotto la minaccia del vento che sferza più dei bastoni e tutto può, contro esili figure in esili stracci. Ma anche quel giorno, come tutti gli altri,  qualcuno non si presenta a quell’appello.

Si chiamava Árpád Weisz, quell’uomo ebreo che un tempo ha conosciuto la gloria, conquistata mietendo successi sui campi di calcio di tutta Europa.

Incontro di nuovo Weisz soltanto grazie a Federico Buffa, l’unico storyteller che quando si abbandona alle sue storie unisce tanti generi ed argomenti, superando brillantemente ogni rischio legato a digressioni intriganti, ma pericolose.

è quindi un giornalista di Sky – così si definisce – a farmi ritrovare un uomo incontrato sugli scaffali delle librerie grazie a Matteo Marani, l’autore del libro Dallo scudetto ad Auschwitz.

Weisz è stato il miglior allenatore d’Europa, come lo sono stati Chapman con il suo modulo WM – e la rivoluzione in difesa – o Guardiola con il suo calcio totale: ungherese come l’inarrivabile Ferenc Puskás, come la nazionale che umilia gli inglesi a Wembley segnando ben sei gol.

Weisz è uomo che ama il calcio, che scopre talenti come Meazza, capace di vincere tre scudetti e portare il Bologna del Presidente Dall’Ara in vetta, più in alto di tutti sconfiggendo Il Chelsea nella finale dell’ expo di Parigi.

Ma quel 1937 è l’anno del sipario che si chiude: le leggi razziali costringono Árpád, sua moglie Ilona ed i figli Clara e Roberto ad emigrare in Francia e quindi in Olanda, dove allena il Dordrecht fino all’occupazione tedesca e all’emanazione delle leggi contro gli ebrei.

Spia i suoi dalle fessure perché la sua è un’espulsione irrevocabile, destinata a durare ancora  a lungo. Gli viene ordinato di spostarsi verso altri campi: quello di Westerbork, campo di transito prima del trasporto in Polonia. Prima dell’arrivo ad Auschwitz Birkenau.

Quella è la destinazione finale perché Árpád e la sua famiglia, così come Nunberg, obbediscono senza volerlo alla soluzione finale voluta da Eichmann e soci, impresari di una società che ragiona in termini di numeri non legati al profitto.

Weisz e Nunberg non torneranno a casa mai più: ma sono uomini che amano lo sport, che vivono il campo e sanno che negli anni a venire altre partite verrano disputate, inevitabilmente, nei campi di tutto il mondo.

Jaap Van Praag è ebreo, sopravvive alla guerra grazie al suo nascondiglio di Amsterdam. Nel 1964 diventa il presidente dell’Ajax, la squadra dove hanno militato tanti suoi correligionari: ma è sopratutto l’anno che vede scendere in campo un altro uomo che sopravvive al suo tempo.

Un giocatore oltre il novantesimo, un fuoriclasse assoluto. Si chiamava Johan Cruijff e indossava il numero 9, per poi passare al numero 14 e per sempre.

Lo ricordano tutti perché c’è una memoria che conta e sopravvive. Accanto, ne esiste un’altra che va incitata come l’uomo in più in campo, che va incoraggiata a riprendersi ciò che non è stato ancora perduto per sempre.

A dispetto di coloro che hanno vissuto nell’odio e che, scegliendo l’inferno, hanno deciso di viverci in eterno.
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