Chiamami con il mio nome

Ingrid Bergman si chiama Irene nel film che mi torna in mente. E’ una donna borghese fortunata ad avere una vita agiata nella società italiana del dopoguerra; quella dove le ferite del conflitto sanguinano ancora, dove il comunismo da un lato ammalia e dall’altro minaccia. Vive a Roma, nell’Europa del ‘51 che ha scoperto un mondo a stelle e strisce completamente diverso dal continente ancora in rovina.

Merito di Norman Rockwell o magari dei film di Hollywood, nei quali Ingrid ha spopolato. Ma la povera Europa è ricca di stimoli ed idee, cosicché  la star svedese si trasforma in Irene. Madre, moglie devota di un ambasciatore e donna impeccabile. Il suo modo di parlare e muoversi è tipico delle signore che indossano guanti bianchi, che nulla possono nel momento in cui accade l’impensabile. Suo figlio Michel cade dalle scale e, dopo giorni di agonia, muore.

Non è il caso di ipotizzare una caduta accidentale: Michel lo ha fatto deliberatamente perché il padre, freddo e distaccato, si accorga di lui. Tuttavia, scegliendo di precipitare Michel stravolge il senso dell’esistenza dei suoi genitori in modo del tutto inaspettato.  Irene si trasforma nella donna che, orfana del figlio e delle sue illusioni, viene introdotta nell’altra Roma e finisce per prendere confidenza con le strade delle borgate.

Col suo divorzio la Bergman ha scandalizzato l’America e per alcuni anni abbandona Hollywood pur di lavorare in Italia. Come la stessa attrice che la impersona, Irene fa il percorso in senso contrario: in un mondo dove tutti sognano l’America o aspirano ad andare in alto – quantomeno in avanti – lei aiuta una prostituta ammalata di tubercolosi, si avvicina agli operai e alle operaie, dialoga e si confronta con simpatizzanti comunisti a caccia di un ideale più che di certezze. Nel suo continuo peregrinare tra le strade di Primavalle, nel suo girotondo in senso antiorario compiuto in quel limbo creato ad hoc dal marito-regista Rossellini, la corsa di Irene a spendersi per gli altri si arresta nel luogo più impensabile di tutti.

“Rea” di essersi sottratta ai doveri di moglie, la donna trova ad attenderla una punizione e non una ricompensa.  Deposta da tempo la corona di perle,  finisce in manicomio e tuttavia non si ribellerà né al destino e nemmeno al consorte. Il suo passato è morto più del figlio scomparso, popolato ormai da figure evanescenti e destinate a confondersi nella storia come lei

L’Europa del ’51 è ancora così, per diversi aspetti simile a quella di settant’anni prima..

..Teramo, 1881. Non è l’incipit di una lettera e nemmeno l’inizio di una giornata qualunque. Nel centro storico della città abruzzese, in una sala al piano terra dell’Ospizio Sant’Antonio Abate, viene inaugurata la sezione psichiatrica che col tempo occuperà l’intera struttura.

Venuto alla luce, l’ospedale psichiatrico subirà la stessa sorte dei suoi ospiti: verrà scoperto, discusso, esplorato. Infine chiuso e abbandonato. Ma non dimenticato.

Quello che nel 1881 non è un giorno qualunque per uno dei più grandi nosocomi dell’Italia centrale, non è un giorno qualunque nemmeno per Antonia, che fa il suo ingresso in manicomio senza più uscirne. Di Antonia non conosco il cognome: nascosto prima, evidenziato poi in uno dei faldoni riesumati e riportati alla luce in anni recenti, grazie alla studiosa Annacarla Valeriano e alla collaborazione tra le varie Istituzioni della città insieme all’Archivio di Stato.

Tuttavia il nome è sufficiente per dar prova della sua esistenza, del fatto che, attraverso un carteggio ingiallito e in un giorno di autunno dalle tinte simili, la sua storia è arrivata fino a me.

Antonia non può più parlare, ma ad un certo punto si è trovata in condizione di non farlo più nemmeno in vita, in quell’Italia umbertina che nel libro Cuore De Amicis descriveva con pagine intrise di apparente spensieratezza e reale malinconia. Invece Antonia ne era distante anni luce: costretta all’isolamento per una “malattia della pelle” muore dopo quattordici anni, vissuti in spazio e tempo che per noi restano incomprensibili.  Misteriose come le voci che si rincorrono in quei corridoi. Voci di uomini, donne, bambini.

Margherita ha compiuto da poco trent’anni, quando nel 1903 sapienti dottori in odore di psicanalisi agli albori pronunciano la diagnosi che sa di condanna a morte. E’ affetta da “frenesia epilettica”, quanto basta per spalancare le porte del Sant’Antonio Abate e chiudere gli orizzonti.

Di lei, che ha un nome finito anch’esso in qualche pagina ingiallita e per fortuna ancora leggibile, si sa che è contadina analfabeta, in grado comunque di testimoniare e riferire in merito ai ripetuti maltrattamenti subiti per opera del marito. Margherita non poteva ricevere solidarietà in quella società e lo stesso dicasi per Rosa D, una sconosciuta che ne condivide il medesimo destino.

A sessant’anni Rosa si sente ancora una donna libera: di lei si narra infatti che giri in paese libera, “senza curarsi dei rimproveri” della famiglia del marito.

Facile immaginare l’inevitabile, così com’è facile immaginarsi la scena: calatisi gli occhiali, stiracchiati i camici impeccabili e inamidati, i medici del nosocomio concludono che Rosa è affetta da “pazzia degenerativa” e che per questo va internata.

La ribellione mostrata al di fuori, in mezzo agli altri, non solo non è accettata, ma non è nemmeno lontanamente contemplata. Una ribellione che oggi ha il profumo di emancipazione, tanto da avvicinare Rosa alla Irene del film, una figura più distante rispetto a quella di Margherita e Antonia.

O piuttosto alla storia di Adelaide, internata nel 1895 per “pazzia sopraggiunta in seguito a morsicatura di un gatto”. Adelaide ha già una sorella internata perché ritenuta folle: evidentemente non c’era tempo o ragione di dubitare.

Non c’è limite di età, non ci sono solo donne in quel manicomio. C’è Domenico, affetto da manie di persecuzione e considerato folle in seguito ad una fattura ai suoi danni. Ci sono bambini che secondo sapienti e onniscienti dottori, a tre mesi manifestano segni di inequivocabile follia.

In centinaia di casi riesaminati, si potrebbe asserire che ce n’è per tutti i gusti. Andando oltre, il manicomio di Teramo, definito città nella città per la presenza di mille internati alla vigilia della Seconda guerra mondiale, riflette l’ immagine fedele  di una società borghese che a tutti i costi e in tutte le epoche sente il bisogno di sentirsi forte abbastanza da voler affermare le proprie ragioni più che la ragione in sé. Il nosocomio teramano non va per questo descritto, narrato, rivissuto come l’inferno in terra, perché non troveremo nessuna creatura demoniaca, nessuno spirito che vagabonda tra le stanze fredde e buie.

Invece è un pezzo di storia, un luogo dove nel 1924 arriva il Direttore Levi Bianchini, il neuropsichiatra che aveva intrattenuto una fitta corrispondenza con Freud. Seguono anni più bui – quelli del sovraffollamento e del secondo conflitto mondiale – infine si alternano medici e scienziati intenzionati a segnare una svolta decisiva. La psichiatria si evolve ed è da quest’evoluzione che si trae la forza necessaria per aprire le porte prima alla scienza, poi alla società sempre più matura negli anni a venire, preludio alla Legge n 180 del 13 maggio 1978.

Già la legge Basaglia: anch’essa inevitabile, inappellabile, fortunatamente non invisibile. Un decreto che non spunta dal nulla o per grazia divina.  Non c’è niente di sovrannaturale, tutto è frutto del lento, inesorabile, riconoscimento della dignità umana che oggi va esteso ad Antonia e Adelaide, a Margherita, a Rosa, a Domenico e tanti altri.

Cominciando a ricordarli, menzionando i loro nomi, l’unica prova che serve per tenere a mente che ciascuno di loro aveva diritto a vivere la propria vita in modo diverso. Potrebbe accadere oggi, ad esempio. Nella pur scellerata, imperfetta società del 2018, quelle persone potrebbero sedersi in poltrona e ascoltare una conferenza libera e aperta a tutti, mentre il rettore dell’Università di Teramo Luciano D’Amico annuncia che il Sant’Antonio Abate – chiuso nel 1998 – verrà ristrutturato e trasformato in “cittadella della cultura” pronta ad ospitare una facoltà, un auditorium, un teatro.

Magari seduta in poltrona ci sarebbe anche Irene, uscita definitivamente dalla prigionia del manicomio e dallo schermo dove fino a un momento si è proiettato un film, dal titolo Europa ’51.

A proposito, nell’ultima scena che mi viene in mente c’è un ufficio rigorosamente in bianco e nero, dove un uomo – volenteroso, ma incapace di comprendere – chiede alla protagonista:

“Riassumendo: è comunista? Vuole entrare nella vita monastica? Quali sono i suoi ideali?

A quella domanda, Ingrid Bergman e Irene Gerard si fondono magicamente e da quella fusione ne deriva un’unica conclusione:

“Voglio dividere la gioia di chi è felice, il dolore di tutti quelli che soffrono. Preferirei perdermi con gli altri, piuttosto che salvarmi da sola. Non ho altro da dire”.

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