C’era una volta Roma

Sergio ed Ennio sono due amici che si sono dati appuntamento in una piazza deserta. Si incontrano per la prima volta dopo anni, ma non possono bere un caffè, perché i bar sono chiusi. Non possono bere un bicchiere di vino – uno de li Castelli, senza dubbio – perché le osterie hanno abbassato le serrande da un pezzo. Non possono far altro, se non incamminarsi – ciascuno per proprio conto – in quella piazza deserta che appare ancora più immensa.

Quel che resta della tramontana gonfia una bandiera tricolore posta in alto. Sergio ed Ennio si trovano al suo cospetto meravigliati: il rumore di ogni passo è un rumore diverso perché oggi non c’è nessuno. Tuttavia  né Sergio, né Ennio, sono qui per cercare il consenso delle folle.  Sono spinti da un bisogno diverso: procedono lentamente dai due lati opposti della piazza e infine si ritrovano – l’uno di fronte all’altro – ad almeno un metro di distanza, proprio davanti ad una fontana sormontata da un obelisco.

La fontana dei quattro fiumi è dominata da quattro figure imponenti: giganti di marmo che, immobili, sovrastano i due amici rimasti in assoluto silenzio tutto il tempo. I giganti non possono parlare e non possono muoversi, ma nella mente di Sergio i giganti di Piazza Navona hanno preso inaspettatamente vita, pronti a rivaleggiare, a combattere per contendersi il dominio assoluto della fontana.

Assurdo, direbbe qualcuno, qualcuno ovviamente privo di fantasia. In quella fontana i quattro giganti rappresentano i quattro fiumi più rappresentativi di quattro continenti. La fontana è il loro regno, racchiuso in uno spazio – piccolo o grande, conta davvero poco – circondato da acqua. Un mondo che Sergio ed Ennio rispettano.

Sono nati all’ombra di sette colli, sono figli di Roma dal primo all’ ultimo respiro. Nella mente di Sergio c’è spazio per un primo piano da antologia, leggendario come sempre. Un primo piano per ciascuno di quei giganti di marmo che, ritrovata la vita, si fissano con occhi maliziosamente feroci, seguendo l’esempio di Clint, Charles, Henry, Leo, pronti a sfidarsi in luoghi deserti e polverosi.

Sergio lo sa, e per questo la sua immaginazione partorisce velocemente una lotta titanica tra i quattro giganti. Ha bisogno però del supporto creativo dell’amico Ennio. Condivide con lui la sua visione e gli chiede di creare delle note in libertà, purché ne esca fuori una musica che renda immortale la scena da girare nella loro città eterna.

In un lampo ne viene fuori un pezzo stupendo. Ennio avverte però Sergio, intimandogli di pazientare, dicendo che ci sarà prima un suono di campane, e che poi, dopo l’ultimo rintocco – finalmente – potrà ascoltare la sua musica.

La promessa di Ennio non tradisce l’amico e la campana dà il la ad uno strumento.

E’ una chitarra elettrica, il suono proviene dall’alto: non dal cielo – s’intende – ma da uno dei terrazzi che tornano protagonisti sopra la piazza che, priva di anime, sembra aver recuperato all’improvviso la propria anima a lungo smarrita.

A suonare quella musica c’è un ragazzo di diciotto anni. La scena è reale, questa volta, e lui esiste davvero: si chiama Jacopo e frequenta il liceo. Già, Jacopo ha diciotto anni e da qualche giorno non manca mai il suo appuntamento al tramonto.

Intimo, na anche straordinariamente condiviso: non il solito incontro con il vecchio gruppo di amici e nemmeno un tête-à-tête con una ragazza. L’esistenza di Jacopo è stata stravolta al punto che la sua quotidianità è diventata mediatica grazie ad un paio di accordi e ad un assolo su un tetto, destinato a dare un significato permanente alla sua esistenza.

Le corde della sua chitarra vibrano, e finalmente il suono si amplifica, si disperde nello spazio, colma il silenzio che è calato all’improvviso e che si acuisce durante le nostre notti, illuminate però da una luna mai vista. Il silenzio calato all’improvviso appartiene a un mondo davvero mai visto. Tra ieri e oggi c’è il distacco misurabile con due mani che non si congiungono e non si toccano.

Per me, che vivo in una regione ad est della capitale d’Italia, dal terrazzo di Jacopo Roma torna ad essere padrona di tutto, degna di rappresentarci tutti, custode meritevole di quella creazione di Adamo impressa sulla volta della sua, nostra, Cappella Sistina.

E’ la Roma come non l’avete mai vista, voi romani. E’ la Roma come non l’abbiamo mai vista, tutti noi altri. Non è più solo la capitale, ma la creatura di grande bellezza che sembrava essersi smarrita per sempre. Da Castel Sant’Angelo a Piazza Venezia, il mio viaggio ideale – solitario, a tempo di musica – comincia.

La fibra mi restituisce immagini che scorrono via al tempo giusto. C’è un drone che si alza sulla città, ma  Roma esiste da tempo immemore ed in realtà è Icaro con le sue ali che spicca il volo, pronto a tendere la mano a chiunque ci tenga davvero a godersi questa visione privilegiata.

http://https://www.youtube.com/watch?v=Ye-QQ7JHto8

Vedendola così – dall’alto – tornano alla mente centinaia di piazze e strade senza tempo, come quelle in cui Gregory Peck e Audrey Hepburn interpretavano una coppia improbabile, ma regale, senza carrozza e a bordo di una vespa. A Roma – come non l’abbiamo mai vista – gli imperatori fremono e riprendono vita, lucidi e spavaldi sul piedistallo, dominanti su due carabinieri ufficiali che fanno un’apparizione fugace in sella ad un cavallo.

Icaro rallenta, e ti accorgi che Roma abbonda di ali: dappertutto ritrovi ali di angeli su statue sognanti. Più fortunate rispetto alle fontane in basso, vandalizzate da barbari di cui Roma non si è mai liberata. I barbari sono arrivati da ogni angolo del mondo, urlando cose senza senso, vomitando birra, strappandole le vesti, violentandola indisturbati.

Per la prima volta quei barbari sono trattenuti fuori dalle mura, non ci sono e non hanno potere alcuno.  Ecco che dall’alto ritrovi Giordano Bruno, che torna ad avere un  po’ di fiato a Campo de’Fiori.

Ha finalmente il tempo pe’ pensa’, de fa’ er filosofo pe’ conto suo e de esse eretico come je pare. C’è voluta ‘na disgrazia, più che ‘na magia. Eppure, Roma come non l’abbiamo mai vista, è tornata ad essere magica.

La magica che non guardi scendere in campo, dai gradoni dell’Olimpico: “A Maggica” è la Roma che rimane impressa sorvolando i gradini di Piazza di Spagna, o i sanpietrini che oggi vorresti toccare di nuovo.

Roma come non l’abbiamo mai vista ringiovanisce, ma la frenesia che l’accompagna è diversa da quella respirata nelle arene o tra i soldati di fronte all’ennesima campagna militare di successo. Troppe cadute, infinite resurrezioni l’hanno cambiata, alienata rispetto a quello che era. L’hanno incattivita, ma anche maturata e lasciata col fiato in sospeso.

Soltanto adesso – dall’alto – comprendi che a dimostrazione delle sue mille vite, Roma è incredibilmente sopravvissuta. Anche a chi l’attacca all’interno delle sue mura,  pronto a inzozzarla, a spartirsela con i propri simili, a vendersene un pezzetto per proprio conto e per gloria comunque peritura.

C’era una volta Roma con tutti i suoi faccendieri e scagnozzi che si sono dissolti – già, come i barbari – e che ora urla per reclamare il suo posto nel mondo.

Meriterebbe un primo piano perenne, con occhi che l’ammirano vivaci in un giorno di sole, con uno sguardo comprensivo in un giorno di pioggia.

Come quel giorno in cui piazza S. Pietro resta priva di tutto, ad eccezione di quello che le è indispensabile: il suo colonnato, il suo signore, il suo cupolone. Dominata da un crocefisso defilato e fradicio di pioggia, in tempo per ricordarci che i giusti e gli umili non hanno bisogno di luci, o passerelle, per spiccare.

Sacro e profano si rincorrono e si sfidano, Roma ha una forza difficile da trattenere: non si può placare o frenare. Ecco perché è sempre a caccia di nuovi imperatori. Ecco perché è fiera di aver scovato l’ottavo re tra i suoi figli prediletti. Roma come non l’abbiamo mai vista è la sconosciuta che non ha mai fatto mistero di sé. E’ ancora la lupa famelica, che però ha dato tanto ai suoi figli.

Già, è Mamma Roma anche se nasci in quartieri difficili e nelle vecchie borgate, resta mamma dei suoi figli quando li delude e loro la ricambiano dicendo apertamente che fa schifo. Lei subisce e non si ribella; ora che i suoi figli non possono vederla, viverla, toccarla, la rimpiangono pronti a giurare di tornare da lei, migliori di prima.

E’Mamma Roma sempre. Pe chi è nato qui, sul Tevere, e pe’tanti artri. Ce ne dimentichiamo sempre e ce lo ricordiamo nei momenti più difficili, che di mamma ce ne può essere solo una. Pe Roma o per il tuo paese, ovviamente, vale lo stesso.
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