Cara gente d’Abruzzo

Mia nonna non si fermava mai: qualsiasi cosa doveva prendere forma sotto le sue mani. Grazie ad una foto che le scattai istintivamente anni fa, posso rivederla in ogni momento sfiorare la chitarra con la sfoglia per poi riprendere il lavoro con forza e vigore. Instancabile, all season, d’inverno come d’estate. Ricordo ancora il movimento delle sue mani: amavo fissarle perché mi dimostravano quanto avesse lavorato, quanto avesse dato a chi l’aveva conosciuta.

Nella sua cucina mia nonna regnava, però lo faceva senza salire sul trono, preferendo invece ridere, chiacchierare, condividere uno spazio che avrebbe potuto – inspiegabilmente – raccogliere il mondo intero.

“Maria era la ragazza più bella del paese” Tra tutte le frasi ascoltate mentre lei era all’opera in quella stanza, questa è una di quelle destinate a rimanere per sempre impressa nella mia mente: mia nonna amava raccontare, ma sapeva concedersi preziosi e misteriosi minuti di silenzio.

Come quando cuciva all’uncinetto. Una nonna di oggi direbbe che ha bisogno di rilassarsi, di “staccare”: lei, a pensarci bene, non lo ha mai fatto. Quando raccontava, lavorava. Quando era in silenzio, era comunque impegnata in qualcosa di produttivo.

“Era davvero bellissima”? Mia sorella non riusciva a trattenere la sua curiosità di piccola donna. Ieri ho avuto conferma che mia nonna non esagerava. Ho ritrovato inaspettatamente quel nome impresso nella mente, Maria Pacella, in un articolo pubblicato su un quotidiano tempo fa. Già, in quelle poche, eloquenti righe, ho ritrovato la frase di mia nonna. Con quelle parole scritte sul giornale, ho risentito la sua voce, rivisto quelle mani e l’espressione del suo volto quando ripercorreva il suo vissuto.

“ Maria era la ragazza più bella del paese” a distanza di anni, la vita di una giovane donna abruzzese vissuta a Quadri e morta prematuramente durante la seconda guerra mondiale, sembra essere racchiusa tutta lì, nello spazio angusto di due virgolette.

Mia nonna mi ha parlato di Maria due volte: non mi ha mai nascosto la sua tragica fine, ma la prima volta, essendo io ancora troppo giovane, lei era riuscita ad usare tutta la delicatezza per non lasciarmi intuire i dettagli della sua uccisione. Nella mia mente Maria era una giovane donna impaurita che tentava di scappare al cospetto dei soldati vestiti di grigio, che volevano farle del male: istintivamente, nonostante fossi un ragazzino, ripetevo a me stesso che in guerra tutto è possibile.

Sulla morte di Maria non feci domande, forse qualcuna – sicuramente banale e per questo dimenticata – perché non aveva senso, per me, aggiungere ulteriore dramma alla tragedia.

Ma oggi, grazie a quelle parole sul giornale lette per caso, ho capito che dalla bocca di mia nonna  era trapelato tutto il senso della sua perdita. Mi parlò una seconda volta, di Maria. Io ero adulto, avevo letto e studiato cosa spingeva i soldati tedeschi ad uccidere le giovani donne. Era capitato in Russia, ma era capitato anche qui, in Abruzzo. Non avrei mai usato la parola abuso, né avrei mai lasciato che l’espressione violenza carnale abbandonasse la mia bocca durante il nostro dialogo. Non avrei potuto, perché mia nonna non avrebbe mai detto quelle parole: lei sapeva che in caso contrario, avrebbe significato sporcare inevitabilmente e irrimediabilmente la memoria della sua grande amica.

Non avrei mai voluto metterla a disagio: ma se mia nonna tornasse in vita,  tra le tante cose le chiederei qualcosa in più di Maria, una delle 903 vittime di guerra abruzzesi.

Gli eccidi dal 1943 al 1945 compiuti in Italia oggi sono raccolti in un atlante realizzato dall’ANPI: tutti i dati possono essere consultati sul sito in ogni momento e comparati come conviene. Spulciando tra i file di questo archivio accessibile online e a chiunque, ho capito le ragioni dei silenzi che mia nonna si concedeva: nel suo paese lungo la linea del fronte tagliata in due dal fiume Sangro, si addossavano truppe tedesche capaci di fare stragi.

Ne ho scoperto una risalente al 15 novembre 1943, proprio nel suo paese, un’altra avvenuta soltanto dodici giorni dopo: ce ne sono state altre in tanti altri comuni. Ma l’ovvietà spezza il dramma. Elencandole tutte, darei la possibilità alle cifre di vincere sul simbolo, sul significato tremendo dell’occupazione nazista in Italia. Probabilmente finirei con l’ignorare altre esistite e di cui oggi non si ha  notizia.

Sembra strano, oggi, in un giorno caldo di primavera scoppiata tardi e all’improvviso, rileggere i nomi degli eccidi.

Scoprire che 359 stragi avvenute nella tua regione così impervia e piccola rispetto a tante altre, danno incredibilmente ragione  al presidente della repubblica Mattarella che ha scelto di celebrare in provincia di Chieti l’anniversario della liberazione lo scorso 25 aprile.

Nel suo discorso, trovano spazio cifre che non vanno interpretate, ma finalmente divulgate perché troppo a lungo taciute o sottovalutate. Lo scopriamo oggi grazie ad un atlante che tenta di colmare lacune e buchi neri nella memoria delle generazioni nate dopo. I numeri sono freddi, ma dovrebbero almeno mettere a tacere gli scettici circa l’ entità indubbia di questa tragedia. Avvenuta in anni difficili, certamente, ma non in anni completamente bui. Perché in quegli anni chiunque decidesse di non piegarsi, resisteva senza spezzarsi.

Attraverso il silenzio e attraverso il racconto, mia nonna impreziosiva il senso della sua vita. Simile a quello di altri uomini e di altre donne della sua generazione, ciascuno testimone di una tragedia incapace di risparmiare anima viva. Come il ragazzino che si sedeva ad un angolo o a un lato del tavolo di fronte ad una stufa, oggi accolgo nel mio universo le parole di altri, le vicende toccate agli altri e alle altre.

Le leggo e le rileggo, un momento dopo aver scoperto che i nazisti erano capaci di fucilare un’anziana donna, qui, nella mia regione, solo per aver sfamato con il poco che aveva un soldato inglese accolto nella sua casa.

Una delle tante donne generose e coraggiose. Una di quelle persone di tempi remoti, che possiamo ritrovare nelle parole della poetessa e partigiana Alba De Cespedes: tutte dedicate alla mia terra, motivo in più per esserne orgoglioso e lasciare che l’ennesimo brivido corra lungo la mia schiena.

….Entravamo nelle vostre case timidamente: un fuggiasco, un partigiano, è un oggetto ingombrante, un carico di rischi e di compromissioni. Ma voi neppure accennavate a timore o prudenza: subito le vostre donne asciugavano i nostri panni al fuoco, ci avvolgevano nelle loro coperte, rammendavano le nostre calze logore, gettavano un’altra manata di polenta nel paiolo.[…] Del resto attorno al vostro fuoco già parecchie persone sedevano e alcune stavano lí da molti giorni. Erano italiani, per lo pià: ma non c’era bisogno di passaporto per entrare in casa vostra, nè valevano le leggi per la nazionalità e la razza. C’erano inglesi, romeni, sloveni, polacchi, voi non intendevate il loro linguaggio ma ciò non era necessario; che avessero bisogno di aiuto lo capivate lo stesso. Ci cedevate i vostri letti migliori, le vesti, gratis, se non avevamo denaro. Che cosa non vi dobbiamo, cara gente d’Abruzzo?

 
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